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11 settembre: il mondo 20 anni dopo

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11 settembre: il mondo 20 anni dopo

Il ventesimo anniversario degli attentati dell’11 settembre coincide con il ritiro delle truppe americane e della Nato dall’Afghanistan, chiudendo un cerchio come non si sarebbe potuto mai immaginare vent’anni fa, con un ritorno al punto di partenza. Le immagini dei corpi che cadono nel vuoto dopo essersi aggrappati ai carrelli degli aerei in decollo all’aeroporto di Kabul si sovrappongono drammaticamente alle ombre delle persone che si lanciarono dalle Torri Gemelle.

Eppure, nel mezzo, il mondo è cambiato, i fondamenti dell’ordine globale sono profondamente contestati e nuove, grandi sfide incombono sugli equilibri internazionali. Molte di queste sono state originate proprio dagli attentati dell’11 settembre e dalla reazione americana.

Il focus speciale è a cura di Alberto Guidi, Osservatorio Geoeconomia ISPI; Filippo Fasulo, Osservatorio Geoeconomia ISPI; e Aldo Liga, Osservatorio MENA ISPI.

20 anni di terrorismo globale: da Al-Qaeda al Jihadismo della porta accanto

La minaccia terroristica di origine islamista si è evoluta moltissimo negli ultimi 20 anni: dal terrorismo globale a quello “della porta accanto” (esponenti delle seconde e terze generazioni di migranti pronti a lasciare il proprio paese per raggiungere i ranghi dello Stato Islamico, individui soli radicalizzati sui social networks etc.). In parallelo, la capacità di “adattamento alla minaccia” da parte degli stati è notevolmente cambiata, mentre strategie e strumenti normativi innovativi (ma anche limitativi della libertà individuale) venivano concepiti e introdotti per rispondere alle specificità dei nuovi scenari. I due fenomeni non si sono però sempre rivelati in modo sincronico, e la sfida dell’adattamento rimane ancora aperta.

A livello globale il numero delle vittime resta alto con oltre 5mila morti in quasi 900 attentati terroristici di stampo jihadista nel 2019. Inoltre, nell’ultimo decennio il numero di attacchi terroristici di matrice jihadista è aumentato di 6 volte rispetto al decennio precedente e in particolare, è cresciuto il pericolo in Asia e Africa Sub Sahariana dove si verifica il 60% degli attacchi, contro il 18% di fine anni 90’. Nonostante quasi due decenni di operazioni antiterrorismo guidate dagli Stati Uniti, ci sono quasi quattro volte più militanti islamici sunniti oggi di quanti ce ne fossero l’11 settembre 2001 e restano inoltre attivi quasi 100 gruppi estremisti islamici.

Anche negli Stati Uniti e in Europa il numero di attacchi è triplicato rispetto al primo decennio del 2000 ma il fenomeno resta di ridotte dimensioni rispetto al resto del mondo. I 28 attacchi terroristici verificatisi negli USA a partire dal 2010 hanno causato 91 morti. A confronto nello stesso arco temporale sono stati 566 i morti per sparatorie di massa in America.

20 anni di “forever wars”: nascita e declino delle guerre infinite USA

Nel contesto della politica estera, l’11 settembre ha avuto un impatto decisivo cambiando profondamente il ruolo e la missione attribuita agli interventi militari. L’insuccesso dei conflitti in Afghanistan e in Iraq, oltre a mostrare l’insostenibilità politica dell’opzione militare, soprattutto per la difficoltà di mantenere la stabilità sul lungo periodo, hanno indirettamente influito sulle crisi in Siria e in Libia, visto che il costo di una azione “boots on the ground” era ormai diventato troppo alto. Per questa ragione, la forza militare americana appare oggi meno credibile: una percezione che contribuisce a delegittimare il ruolo globale degli USA.

Oltre al dato delle 900 mila persone morte nelle guerre post-11 settembre, di cui 335mila civili, il costo economico complessivo per gli Stati Uniti è di 8 trilioni di dollari. Da sola, la guerra afghana è durata più delle due guerre mondiali e delle operazioni in Vietnam, con la perdita di 2500 soldati US, 67mila militari afghani e 47 mila civili.

In ogni caso, l’evoluzione tecnologica, come l’utilizzo di droni e i targeted killings, hanno aperto a un nuovo modo di fare la guerra. È proprio grazie a un primo esemplare di drone Predator che il 28 settembre 2000 Bin Laden venne identificato nel suo complesso vicino a Kandahar. Inoltre, nelle scorse settimane proprio i droni si sono rivelati essenziali per sventare nuovi attentati presso l’aeroporto di Kabul. In quattro anni di guerra contro l’Isis in Iraq e Siria, i droni sono stati impiegati in più di 2.400 missioni: quasi due al giorno. Nei prossimi 10 anni, si prevede che gli Stati Uniti acquisteranno più di 1.000 droni da combattimento. Un tale incremento rappresenta una trasformazione dell’esperienza del conflitto, reso sempre più impersonale dalla distanza dal fronte, e più letale per gli obiettivi sul campo (e collateralmente anche per i civili, 22 mila quelli rimasti uccisi da bombardamenti e droni americani).

20 anni di “interventismo democratico”: unilateralismo e regime change

20 anni dopo l’11 settembre la strategia dell’esportazione della democrazia si è rivelata un insuccesso. L’ordine internazionale che su ispirazione dalla superpotenza americana all’indomani della guerra fredda, si era costruito sulla promessa democratica, non ha superato la prova della reazione agli attentati alle Torri Gemelle e della war on terror, segnandone probabilmente il fallimento definitivo. L’insediamento in Afghanistan e in Iraq di regimi fragili e corrotti, delegittimati e incapaci di garantire condizioni minime di sicurezza ha mostrato come il regime change non possa fondarsi principalmente sull’interventismo militare. Il principio dell’esportazione della democrazia si è accompagnato al concetto di “guerra preventiva” e alla pratica dell’unilateralismo negli interventi internazionali, come avvenuto con la decisione americana di intervenire in Iraq senza un esplicito avvallo del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Inoltre, alla fine di questo ventennio, la risposta di Trump alla pandemia di Covid-19 ha ulteriormente messo in luce la persistente debolezza e, contemporaneamente, la necessità di ritrovare una perduta consensualità multilaterale. Le organizzazioni internazionali, infatti, hanno visto la propria credibilità internazionale e i limiti della propria azione notevolmente ridotte dallo stallo dovuto a uno scontro tra crescente “sfiducia” americana e nuove richieste degli emergenti di avere una sempre maggiore voce nella gestione delle questioni globali. 

20 anni di declino americano: una leadership sempre più contesa

L’ordine del post-guerra fredda (quella fase in cui la storia era stata troppo precipitosamente dichiarata come “finita”) è profondamente cambiato dall’attentato alle Torri Gemelle. A vent’anni di distanza è possibile riflettere su come questo evento di portata generazionale abbia avuto conseguenze sull’ordine mondiale pensato a Washington (“Washington Consensus”), sulla sua messa in discussione (da parte di movimenti sociali, di nuovi competitors come i BRIC, di nuove istituzioni come la Asian Infrastructure Investment Bank, o di nuovi grandi progetti internazionali come la Belt and Road Initiative) e più in generale sulle possibilità di vedere emergere un equilibrio diverso. In questi 20 anni gli States hanno perso la leadership solitaria dell’economia mondiale. Nel giro di due decenni il PIL cinese è passato dal 12 al 70% di quello americano. Pechino si è anche progressivamente affermata come partner commerciale di riferimento a livello globale: nel 2000, erano 163 i Paesi che commerciano di più con gli USA che con la Cina, 20 anni sono solo 52. L’american dream si è progressivamente eroso: oggi un migrante ha due volte più possibilità di essere espulso rispetto al 2001, mentre il livello di disuguaglianza economica della società americana, misurato dall’indice di Gini, è il più alto tra i paesi del G7. Anche a livello militare, il primato americano è sempre più contestato: Pechino ha quintuplicato le spese negli ultimi 20 anni mentre gli Stati Uniti le hanno solo raddoppiate.

20 anni di sfide rimandate: ora tocca alle “grandi potenze”

Con la caduta del muro di Berlino, il possibile confronto fra Pechino e Washington è rimasto sullo sfondo come nuova piattaforma di confronto strategico. Negli ultimi vent’anni, però, le diverse amministrazioni americane hanno dovuto più volte mettere il tema in secondo piano per l’emergere di altre priorità. Allo stesso modo, una ambivalenza della visione della Cina come minaccia e opportunità ha portato, al contrario, a grandi avvicinamenti. Proprio quest’anno, infatti, si celebrano anche i 20 anni dall’ingresso della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio: era il dicembre 2001, e quell’ingresso era stato facilitato proprio dagli Stati Uniti, che pensavano di poter “cooptare” agevolmente Pechino all’interno dell’ordine da loro creato. Il dossier del contenimento dell’ascesa di Pechino doveva essere la priorità strategica della presidenza Bush, ma la guerra al terrore ne ha imposto il rinvio, un destino che si è ripresentato anche nella prima fase della Presidenza Obama, per forza di cose dedicata alla crisi finanziaria internazionale.

Nel frattempo la Cina ha avuto modo di approfittare di una “finestra d’opportunità” culminata, sotto la guida di Xi Jinping in una politica estera più assertiva e dichiaratamente orientata al primato internazionale per la metà del secolo. La prospettiva attuale di una competizione per il primato economico mondiale di lungo periodo ha reso, così, inevitabile per le amministrazioni Trump e Biden mettere Pechino al centro della propria azione politica.

20 anni di “prove di dialogo”: Medio Oriente, Occidente e Islam

La regione MENA è stata sconvolta dalla reazione americana a seguito dell’11 settembre. Fra “stati canaglia” e storici alleati, il mondo arabo si è dovuto adattare alla war on terror americana. Dalle iniziali reazioni di giubilo in Palestina alla riconfigurazione della relazione con l’Arabia Saudita, all’utilizzo delle basi nel Golfo per intervenire contro il regime di Saddam Hussein alle ambivalenze pakistane, l’attacco alle Torri Gemelle ha rappresentato uno spartiacque per la regione, costringendo i Paesi membri a dichiarare in modo chiaro il proprio fronte di appartenenza e ad adattarsi alle conseguenze di questo posizionamento. Adesso che la regione si trova di fronte al disimpegno militare americano, incombono nuove sfide e scenari inediti che possono avere implicazioni dirette anche per l’Italia e l’Europa poiché il “vuoto” americano è pronto a essere riempito da altri attori sempre più assertivi, a partire da Turchia, Russia e Cina.

Intanto, la reazione americana all’11 settembre – soprattutto a partire dalla guerra in Iraq – ha scatenato un’ondata di antiamericanismo in tutto il mondo. Contemporaneamente l’islamofobia si è imposta come una minaccia strutturale all’equilibrio sociale dei paesi occidentali e l’aumento dei flussi migratori cui abbiamo assistito negli ultimi anni è spesso sfociato in gravi episodi di intolleranza, violenza e rigetto.

La percezione dell’“altro” si è profondamente evoluta negli ultimi 20 anni e l’11 settembre rappresenta probabilmente la data in cui risentimento e pregiudizi hanno preso una direzione irreversibile. Nonostante la moltiplicazione delle iniziative di dialogo interreligioso e interculturale, il recente emergere dei populismi di destra è reso possibile anche da questo processo. In particolare, l’islamofobia (poi rinvigorita anche dallo “shock” dell’ISIS e della sua violenza) si è imposta negli ultimi due decenni come tratto caratteristico di molti i paesi occidentali: se nel 2000 ci furono solo 12 aggressioni anti-musulmane negli Stati Uniti segnalate all’FBI, nel 2001 divennero 93, e nel 2020 se ne contano 227.

20 anni di (in)dipendenza energetica: isolazionisti perché si può?

20 anni fa era quasi inconcepibile che l’America potesse disinteressarsi del Medio Oriente. Non fosse altro perché la dipendenza dalle importazioni di petrolio per soddisfare la domanda interna erano ai massimi di sempre (oltre 10 milioni di barili di petrolio al giorno nel 2003, il 15% della produzione mondiale), ma anche perché erano ancora in crescita fino al picco del 2006 quando avrebbero toccato il record di 13 milioni di barili al giorno. Era dunque impensabile che, in un periodo in cui anche altri “giganti” crescevano e la domanda mondiale veniva sottoposta a forti pressioni al rialzo, con il petrolio che superava i 147 dollari al barile nel 2008, Washington pensasse a un serio disengagement dal Medio Oriente. I conflitti in Medio Oriente erano intrattabili, certo, ma era inevitabile che l’America restasse “invischiata” nella regione.

La crisi economica, prima, e poi la rivoluzione shale hanno completamente rivoluzionato il panorama odierno. Le importazioni sono crollate, e gli Usa sono oggi addirittura esportatori netti. E mentre ciò che accade nella regione rimane ancora di estrema importanza anche per l’America (è una questione di stabilità regionale, e ovviamente ci sono anche gli alleati da rassicurare), la minore dipendenza dall’energia mediorientale aumenta lo spazio di manovra di Washington rispetto al recente passato. Pechino, nel frattempo, ha superato gli States come principale importatore di energia sia dai paesi dell’area mediorientale (2014) sia su base globale (2017).

20 anni di polarizzazione politica: da “tutti contro Osama” a tutti contro tutti

Sono lontani i tempi del “rally ‘round the flag” del 2001. L’attacco all’America aveva fatto schizzare alle stelle il consenso del Presidente Bush junior (dal 51% al 90%), lasciando cadere rapidamente nel dimenticatoio le modalità con le quali le Presidenziali 2000 si erano trascinate, in una delle elezioni più contestate di sempre a causa della lunga disputa legale sul riconteggio delle schede della Florida. Paradossalmente, l’epoca Bush è stata anche quella in cui la tendenza a convergere verso il centro dello schieramento da parte dei due grandi partiti americani ha cominciato a venire meno dando il via a un processo di polarizzazione che portato alla creazione di un solco sempre più marcato tra gli elettori Democratici e quelli Repubblicani.

Durante la presidenza Obama, il fenomeno è diventato sempre più evidente, in ragione di grandi polemiche combattute sempre più su posizioni ideologiche e l’arrivo nel mainstream di posizioni complottiste un tempo ai margini del dibattito politico (come il birther movement). Trump ha fatto il resto, ma non da solo: entrambi i partiti si sono progressivamente radicalizzati, tanto che è sempre più difficile raggiungere un consenso parlamentare su proposte bipartisan (ci sta provando Biden, vedremo come andrà a finire).

20 anni in più: un’America più vecchia, più “diversa”

In questi 20 anni la crescita della popolazione americana è crollata, soprattutto dopo la Grande Recessione e, negli ultimi anni, a causa delle nuove restrizioni all’immigrazione. Nel 2020 si è registrato un aumento della popolazione del +0,35%, il più basso tasso di crescita annuale dal 1900, pari alla metà di quello del 2000. Il decennio 2010-2020 è poi l’unico dal primo censimento del 1790 in cui la popolazione bianca non è cresciuta (è anzi crollata, passando dal 69,1% del 2000 al 57,8% del 2020). Al contrario, la quota di popolazione nera è rimasta pressoché invariata (attorno al 12%), mentre quella ispanica è esplosa (dal 12,6% al 18,7%) e quella asiatica è cresciuta (dal 3,6% al 5,9%).

La conseguenza è una maggior diversificazione razziale, in particolare tra le generazioni nate dagli anni Ottanta in avanti, creando un “gap generazionale culturale” che è apparso evidente nelle manifestazioni relative al #blacklivesmatter (con molti giovani in prima linea, mentre il paese “vecchio e bianco” restava a guardare o vi si opponeva). In contrasto con questi dati, il numero di crimini di odio contro le persone di colore continua a rimanere superiore a quello riferito a tutte le altre etnie considerate insieme. Ulteriori segnali negativi si riscontrano sia nel peggioramento del wage gap tra americani bianchi e di colore – passato dal 60% del 2000 al 56% attuale –, sia dalla ricchezza aggregata: complessivamente le famiglie bianche possiedono asset pari a 102 trilioni di dollari, quelle nere pari a 6, una differenza doppia rispetto a quanto si registrava a inizio 2000.

Il focus speciale è a cura di Alberto Guidi, Osservatorio Geoeconomia ISPI; Filippo Fasulo, Osservatorio Geoeconomia ISPI; e Aldo Liga, Osservatorio MENA ISPI.

[ Istituto per gli Studi di Politica Internazionale ]