Porre le basi per una più stretta unione tra i popoli europei». È il 25 marzo del 1957 quando a Roma, al Palazzo dei Conservatori, viene firmato il primo trattato che segna la nascita della futura Unione europea. Sono passati 61 anni da quando queste parole sono state scolpite nel preambolo del Trattato. E, soprattutto, ne sono trascorsi 20 dalla nascita della più importante e controversa forma di unione che l’Europa abbia mai sperimentato: l’euro. Eppure oggi quel sogno appare, a molti cittadini sempre più come una gabbia, un vincolo che limita la sovranità dei popoli e la loro capacità di autodeterminazione.
Il 2019 si preannuncia come l’anno simbolo di queste tensioni: a marzo la Gran Bretagna sarà infatti il primo Paese ad abbandonare l’Unione europea; a maggio, con elezioni per il Parlamento europeo, è presumibile aspettarsi un rafforzamento delle forze politiche euroscettiche. Ecco perché proprio il ventesimo anniversario della nascita dell’euro, partito il primo gennaio 1999 come valuta ma diventato moneta e banconota fisica solo nel 2002, deve essere l’occasione per ragionare a mente fredda.
Per analizzare i dati e per capire cosa l’euro abbia davvero portato all’Europa (e all’Italia), in positivo e in negativo: per cittadini, imprese e Stati, sempre considerando che in 20 anni il mondo è cambiato e dunque fare paragoni è difficile.
Chi vince e chi perde (secondo Bloomberg)
Stabilire vincitori e vinti è in ogni caso impresa ardua, perché le variabili in gioco sono numerose, complesse e coordinate fra loro. A stilare una classifica hanno provato proprio in questi giorni Bloomberg Economics, con un vero e proprio test al termine del quale è stato attribuito un giudizio (A, B o C a seconda del grado di soddisfazione) su dieci parametri – che spaziano dalla competitività all’accesso al credito – e un valore generale e conclusivo per ciascun Paese.
Non sorprende incontrare in cima alla lista la Germania, capace di trarre vantaggio dalla moneta unica aumentando nel corso degli anni la propria competitività, accompagnata come prevedibile da Austria e Finlandia, ma anche dal pluri-indebitato Belgio e da Slovenia e Slovacchia entrate nell’Eurozona in un secondo momento. Così come purtroppo era altrettanto immaginabile trovare al contrario l’Italia fra i «perdenti», pur in buona compagnia di altri Stati di primo piano quali Francia e Spagna.
Euro, opera (ancora) incompiuta
La produttività, il costo del lavoro e quindi anche la competitività negli anni precedenti la crisi del 2008, ma anche la possibilità di finanziarsi per le imprese figurano tra le note dolenti individuate per il nostro Paese e non da tutti condivise, come dimostra l’inchiesta de Il Sole 24 Ore. Del resto, come sottolinea la stessa Bloomberg, il lavoro «non chiarisce se gli stati membri avrebbero conseguito migliori risultati al di fuori dell’area dell’euro, né misura la prosperità generale e la salute economica». Pur essendo destinato inevitabilmente a creare discussioni, il test offre in fondo l’occasione per ragionare su un’opera ancora incompiuta. Perché, come ha ammesso lo stesso presidente della Banca centrale europeaMario Draghi, «l’Unione monetaria ha avuto successo in molti campi, ma non è riuscita a dare i benefici auspicati in tutti i Paesi». E l’Italia, purtroppo, è tra questi.
La distribuzione sociale della ricchezza
Se si dovesse giudicare dall’aumento del senso di insoddisfazione e del malcontento che serpeggia in maniera evidente fra la popolazione italiana, i 20 anni dell’euro rischiano di apparire un fallimento. I dati relativi alle famiglie italiane, alla loro ricchezza e al loro indebitamento, raccontano però una storia in parte diversa. Alla fine dello scorso anno – secondo i dati riportati da un recente studio targato Banca d’Italia e curato da Diego Caprara, Riccardo De Bonis e Luigi Infante – nel nostro Paese la ricchezza netta dei privati sfiorava i 10mila miliardi di euro e valeva 8,5 volte il reddito disponibile, quando venti anni prima superava di poco le sei volte.
Il diavolo spesso si annida tuttavia nei dettagli, che i dati aggregati rischiano di nascondere. Se l’era dell’euro si è infatti aperta nel segno della convergenza per l’Italia nei confronti del resto dell’area geografica a cui appartiene, e soprattutto rispetto alle economie più avanzate, il decennio «perduto» che ha seguito la crisi del 2008 ha rimescolato le carte, finendo per rendere ancora più acute le diseguaglianze già presenti fra la popolazione. La ricchezza delle famiglie italiane, pur cresciuta a livello aggregato, è sempre meno equamente distribuita: questo diffonde malcontento e un legittimo senso di frustrazione.
Il potere d’acquisto degli italiani
Il malessere è poi accresciuto dal fatto che questi ultimi 20 anni hanno prodotto un calo del potere d’acquisto per gli italiani. Secondo le elaborazioni di Ref Ricerche per Il Sole 24 Ore, il reddito disponibile delle famiglie al netto dell’inflazione è infatti aumentato in media nell’area euro dell’11,3%, con punte del 21,2% in Francia, del 15,7% in Spagna e dell’11,8% in Germania. In Italia invece si è registrato un calo del 3,8% e non è dunque un caso che le critiche siano elevate nel nostro Paese.
Valore degli attivi e inflazione
Quando ci si riferisce alla ricchezza reale delle famiglie, i dati della Banca d’Italia mettono inoltre in evidenza un raddoppio dei suoi valori, e in particolare della componente detenuta in abitazioni e terreni, fra il 1999 e il 2011 (l’anno della grande crisi del debito italiano). Ma pure una sua progressiva riduzione negli anni successivi, anche in rapporto al reddito disponibile, complice il calo dei prezzi immobiliari degli ultimi anni. E questo contribuisce ad aumentare l’amaro in bocca e lo scontento fra i cittadini.
Certo, nella grande rincorsa dei valori delle case avvenuto nel decennio precedente un ruolo di rilievo lo aveva giocato la riduzione dei tassi dei mutui ipotecari, questa sì legata all’introduzione dell’euro: senza infatti voler scomodare i valori che si accompagnavano all’inflazione a doppia cifra degli anni 80, i tassi d’interesse armonizzati sui prestiti per l’acquisto di abitazioni si sono più che dimezzati da oltre l’11% del 1995 al di sotto del 5% agli albori dell’era dell’euro, per poi scivolare ancora fino ai minimi storici attuali.
Debito privato
E se è vero che nel periodo i tassi si sono ridotti ovunque, occorre
riconoscere che su questo tema la convergenza è di fatto diventata realtà:
quella stessa convergenza che si è verificata solo in parte (verrebbe da dire
«per fortuna») sul fronte dell’indebitamento privato. Come sottolinea
Bankitalia, infatti, le passività delle famiglie italiane sono sì cresciute in
misura significativa passando rispetto al reddito disponibile dal 36% del 1995
all’80% del 2017, ma restano inferiori non solo rispetto a paesi dove
storicamente questo valore è particolarmente elevato come Gran Bretagna, Canada
e Stati Uniti, ma anche a economie più affini quali Francia o Germania. Quando
si guarda al debito dei privati, nel confronto internazionale l’Italia conserva
insomma il livello più ridotto: uno scenario opposto rispetto a quello
tracciato dal debito pubblico.
Le imprese tra produttività ed export
Dalla nascita del mercato unico europeo nel 1979 fino alla crisi del sistema monetario nel 1992, la lira è stata svalutata sette volte. Perdendo circa metà del proprio valore rispetto al marco tedesco. Questo ha tenuto a galla la competitività del sistema imprenditoriale italiano. Come effetto collaterale ha aumentato l’inflazione (secondo i dati Bce) del 223% in termini cumulati, contro il 103% medio europeo. La produttività in quegli stessi anni è rimasta inferiore rispetto a quella degli altri Paesi che sono entrati nell’euro: tra il dicembre 1978 e il 1998, secondo i calcoli di Intesa Sanpaolo su dati Ocse, la produttività delle aziende italiane è aumentata infatti del 45%, mentre quella delle concorrenti tedesche ha segnato un +55% e quella delle francesi un +58%. Dopo la nascita dell’euro il gap è stato però ben maggiore: in 20 anni la produttività in Italia è cresciuta del 5%, in Francia del 20,6% e in Germania del 24,4%. Questo è il problema: l’impossibilità di effettuare svalutazioni, accompagnata a una scarsa produttività rispetto agli altri Paesi, ha indebolito la competitività dell’Italia.
Il peso del “sistema paese”
«Il gap di produttività con gli altri Paesi è dovuto a un
insieme di fattori – osserva Stefania Trenti, economista di Intesa Sanpaolo -.
In questi anni l’Italia ha sofferto l’ascesa della Cina sui mercati
internazionali in misura maggiore rispetto alla Germania, che ha beneficiato
della fase di riorganizzazione delle filiere produttive interne ed
internazionali nonché delle riforme degli anni precedenti. Riforme che l’Italia
non ha fatto, basandosi negli anni precedenti sugli effimeri vantaggi della
svalutazione della lira». «Tra i tanti fattori che pesano sulla produttività in
Italia – aggiunge Luca Mezzomo, economista di Intesa Sanpaolo – c’è
l’inefficienza del sistema Paese, dalla giustizia all’amministrazione
pubblica». Eppure il sistema produttivo italiano è riuscito, almeno in parte, a
reagire. Le imprese più deboli hanno sofferto. Ma, nonostante la “gabbia”
valutaria, i dati dimostrano che l’Italia è rimasta un grande esportatore.
Attualmente – calcola Intesa Sanpaolo – è l’ottavo Paese al mondo, con una quota del mercato globale pari al 3,3%. E questo sebbene l’Italia rappresenti solo il 2,4% del Pil globale. Nel 1998 l’Italia era il sesto esportatore, ma le due posizioni le ha perse a causa della Cina (passata in 20 anni dall’ottavo al primo posto) e Hong Kong (dal decimo al quinto). Tutti i Paesi europei in realtà hanno aumentato l’export. Durante gli anni di moneta unica – secondo i dati della Bce -, le esportazioni intra-Unione europea dei Paesi dell’Eurozona sono aumentate dal 13% del Pil del 1992 al 20% di oggi. Ma sono soprattutto gli scambi commerciali intra-Eurozona ad essere cresciuti, dato che – come ha spiegato Draghi recentemente – «si sono rafforzati i legami tra Paesi attraverso le supply-chain».
Il sistema del credito
Altro settore dove l’euro ha avuto un impatto per le imprese (in questo caso positivo) è quello del credito. La moneta unica ha dato alle aziende la possibilità di finanziarsi sul mercato obbligazionario non solo a tassi contenuti, ma offrendo agli investitori titoli senza un rischio-cambio. Ai tempi della lira comprare bond di aziende italiane significava esporsi al pericolo di svalutazioni, dunque un mercato non esisteva. Oggi sì. Ancora piccolo, dato che l’Italia (a causa dei crack di Cirio e Parmalat) per anni non ha favorito la nascita di un mercato finanziario evoluto. Ma esiste. Per anni (fino alla recente crisi del sistema bancario) le imprese italiane hanno anche avuto facile accesso al credito bancario.
Il boom del credito, aumentato del 130% da inizio 1999 al picco di fine 2011 contro una crescita cumulata del Pil di appena il 20%, è stato agevolato anche dai tassi d’interesse in calo: se nel 1995 i tassi (armonizzati) applicati alle imprese dalle banche erano intorno al 10% e nel 1996 all’11%, già nel 1999 all’ingresso nella moneta unica erano scesi al 4,60% (gennaio) e oggi sono all’1,51%. Questo avrebbe dovuto favorire gli investimenti. Purtroppo le imprese italiane hanno aumentato il debito, ma non gli investimenti.
L’euro e i conti dello Stato
Il progetto dell’unione monetaria è stata un’operazione estremamente ambiziosa ma anche costellata da numerosi errori come si è capito con la crisi dei debiti sovrani del 2011-2012. L’euro, che fino a quel momento era stato sempre giudicato come un esperimento positivo, si trasformò così in una zavorra perché, avendo ceduto la sovranità monetaria, il nostro Paese si trovò di fatto senza strumenti per affrontare la speculazione finanziaria. Si sa come andò a finire. Il famoso «whatever it takes» («faremo tutto il necessario per salvare l’euro») pronunciato dal governatore della Bce Mario Draghi il 26 luglio 2016, prodromo dell’adozione dello «scudo anti-spread» (come venne ribattezzato il piano Omt di cui si sarebbe dotata la Bce), fece cambiare rotta ai mercati.
L’euro si salvò e l’Italia pure. Ma il prezzo fu salatissimo: il tasso di disoccupazione, che nel 2007 era al 6%, arrivò a superare quota 13% nel 2014 mentre il Pil si contrasse di oltre il 10% rispetto ai livelli pre-crisi contribuendo, in parallelo con l’aumento degli interessi sui titoli di Stato, a far salire il fardello del debito pubblico oltre il 130% del Pil.
Sarebbe andata diversamente se fossimo rimasti alla lira? Tra gli addetti ai lavori c’è chi sostiene di sì (anche se non tutti gli euroscettici sono convinti che uscire dall’euro sia una buona idea…). Soprattutto perché, se fosse rimasta alla lira, l’Italia avrebbe potuto sempre contare su un compratore di ultima istanza del suo debito (la Banca d’Italia). Al contrario c’è chi è convinto che, senza l’euro, la crisi finanziaria avrebbe potuto avere conseguenze ben peggiori per l’Italia. Per una serie di ragioni. Una su tutte, non banale per un Paese indebitato come l’Italia: il costo del debito.
L’indicatore chiave
Nonostante la crisi e le fiammate dello spread di questi anni, oggi gli interessi sul debito rappresentano circa il 9 % della spesa pubblica dello Stato. Negli anni prima dell’ingresso nell’euro si viaggiava oltre il 20 per cento. La crescita del debito pubblico italiano, che pure c’è stata negli anni della crisi, è stata più bassa rispetto a quella delle altre economie sviluppate. Sarebbe accaduto lo stesso con il fardello di interessi che pagavamo prima?
È stata una sfida davvero dura: una politica monetaria unica per un’area ancora molto diversificata. Non è stato un compito facile: lo scivolone dell’euro, a ottobre 2000, fino a quota 0,80 dollari, fece pensare a una rottura dell’Unione: lo spread tra BTp e Bund giunse al livello, allora considerato altissimo, di 40 punti base. Subito dopo il timore di una deflazione spinse la Bce a portare i tassi fino all’1%, creando non pochi problemi.
Per alcuni Paesi – la Spagna, l’Irlanda, in parte anche l’Italia – la politica monetaria era troppo espansiva. I prezzi degli immobili si surriscaldarono e per molte aziende il costo del credito così basso fece venire meno un incentivo a migliorare la produttività (e quindi a favorire l’aumento dei salari reali): si sono moltiplicate – in Spagna, ma anche in Francia e in Italia – aziende zombies che sopravvivono a stento mentre in un contesto appena più esigente avrebbero dovuto trasformarsi rapidamente o, in casi estremi, fallire lasciando spazio a imprese più efficenti.
I nodi irrisolti
La grande recessione, con l’esplosione del nazionalismo
economico – soprattutto di Germania e Francia – che ha portato a una
frammentazione di fatto dell’Unione monetaria, ha dato alla Bce il ruolo di
unica vera istituzione economica comunitaria. Non sono mancati errori, come la
stretta inappropriata del 2011, ma dal 2012, dall’impegno di Mario Draghi a
difendere l’euro, la politica monetaria si è trasformata radicalmente ampliando
i propri strumenti e aumentando la propria flessibilità. Anche l’ultima fase,
ultraespansiva, porta con sé una serie di conseguenze negative, ma ha evitato
sia i rischi legati alla deflazione, sia quelli di una crisi creditizia.
I risultati di questi 20 anni non danno dubbi sul giudizio finale: la dispersione dei tassi di inflazione, dal ’99 a oggi, è stata costante ed è oggi vicina ai minimi mentre quella dei tassi di lungo periodo – molto dipendenti dalla politica – dopo aver toccato un minimo nel 2007 ed essere risalita dopo la frammentazione “nazionalista” della crisi fiscale nel 2010, è tornata a calare, malgrado le turbolenze greche e italiane. Eurolandia, insomma, è oggi più integrata. Di più la banca centrale – che nel medio periodo incide sulle variabili monetarie, non su quelle reali – non poteva fare: la convergenza creditizia e finanziaria è parziale (e non a caso c’è l’esigenza di completare l’Unione bancaria), mentre quella della crescita e della produttività dipende da tecnologie e competenze per le quali troppi Stati, e qualche azienda, non intendono sforzarsi troppo.