La rielezione di Sergio Mattarella e la riproposizione del tandem costruito un anno fa dal presidente della Repubblica con Mario Draghi è stata, purtroppo, preceduta da un clamoroso fallimento.
Il «secondo grande fallimento dei partiti in questa legislatura», ha scritto ieri Luciano Fontana (il primo fu, dodici mesi fa, quello che portò Draghi a Palazzo Chigi). Forse lo possiamo considerare il terzo fallimento della legislatura, se ricordiamo la rovinosa crisi, nell’estate del 2019, del primo governo guidato da Giuseppe Conte. Crisi alla quale seguì un’alleanza del M5S con Pd e Leu sotto la guida spigliata dello stesso Conte. Quell’alleanza fu stipulata in emergenza allo scopo di evitare elezioni anticipate che avrebbero potuto premiare Salvini. Ed ebbe come prezzo il taglio dei parlamentari non accompagnato — a dispetto degli impegni presi — da aggiustamenti costituzionali. Con conseguenze ad oggi imprevedibili. Che avremo però occasione di sperimentare dopo le elezioni previste tra un anno o poco più.
A ben guardare, dai giorni — tutto sommato pochi (sei) — dedicati al voto per l’elezione del presidente della Repubblica, i partiti sono usciti meno malconci di quanto ci è potuto apparire in presa diretta. Due di loro, Pd e Fratelli d’Italia, sono addirittura in uno stato di discreta euforia. Certo, anch’essi hanno mancato l’obiettivo. Ma né Enrico Letta né Giorgia Meloni conducevano le danze: hanno così potuto giocare di rimessa sicché nessuno dei due si è visto costretto a esporre e sacrificare un proprio candidato.
Forza Italia addirittura festeggia — non è dato sapere se a ragione o a torto — per la «centralità» riconquistata da Silvio Berlusconi. Matteo Renzi ha trovato un ruolo elettrizzante nel mandare in frantumi la candidatura di Elisabetta Belloni (una strana storia, dagli aspetti opachi, interamente a danno — va detto — dell’incolpevole protagonista). Conte, invece, è stato costretto più volte ad affrontare problemi connessi al comando del M5S in compagnia di Luigi Di Maio. In questo momento sembra essere nei guai. Ma l’esperienza ci dice che dopo qualche trambusto i due ritroveranno l’«accordo». I piccoli partiti centristi, per quel che li riguarda, in occasione della battaglia per il Quirinale non hanno svolto ruoli di particolare rilievo. Perciò non hanno perso né guadagnato nulla.
Salvini si è affaticato invece nel giocare a palla con le teste di alcuni aspiranti al Quirinale, talvolta inconsapevoli. È un compito che si è improvvidamente autoassegnato senza essersi adeguatamente preparato nei mesi precedenti. È emerso che non ha né un’agendina né un numero adeguato di collaboratori fidati che conoscano e possano discretamente contattare persone fuori dallo strettissimo giro della Lega. Persone, intendiamo, candidabili a posti di responsabilità.
Un problema del genere era già venuto alla luce quando nella primavera del 2018 si trattò di scovare un presidente del Consiglio e qualche ministro «indipendente» da mandare al governo assieme ai seguaci di Beppe Grillo (i quali, per parte loro, potevano contare sui misteriosi serbatoi della Link University). Tale difficoltà si è riproposta recentemente allorché Salvini e Meloni sono stati costretti ad andare in cerca di candidati sindaci per le grandi città. Ed è venuta nuovamente alla luce negli ultimi giorni quando si trattava di rinvenire un inquilino per il Quirinale. A suo tempo, Berlusconi, gli va riconosciuto, aveva grande talento nel cimentarsi nello scouting.
A volte sbagliava e trovava personaggi che si poteva capire fin dall’inizio non sarebbero stati all’altezza del ruolo per il quale erano stati individuati. Ma Berlusconi era capace di trovarne in grande quantità e alcuni si mostrarono talentuosi. Salvini (e Meloni), quantomeno in apparenza, non si pongono neanche il problema di individuarli se non a ridosso degli eventi. E, nel momento in cui sono costretti a prendere grandi decisioni, danno l’impressione di improvvisare. Tutto ciò va ad aggiungersi alle loro ben note discordie.
Talché il fatto che la partita del Quirinale si sia conclusa senza vincitori né vinti, per i partiti, anche quelli più in difficoltà, è quasi rassicurante. Adesso possono contare, tutti, su un tandem rafforzato (presidenza della Repubblica e presidenza del Consiglio) che opera alle loro spalle e li protegge dall’Europa nonché dai mercati. Un tandem che non ha più date di scadenza. Sicché i partiti possono dedicarsi alle elezioni in cui tra un anno e qualche mese dovranno misurare la propria consistenza. In relativa tranquillità. A patto ovviamente di non entrare in rotta di collisione con i loro rappresentanti nel governo e con ciò che essi saranno costretti a fare di qui alla fine della legislatura. Tutto sarà un po’ più difficile nel secondo anno di Pnrr, tanto più che è finito il tempo in cui l’unico imperativo era quello di spendere.
Se dovessimo, però, individuare un appuntamento più insidioso degli altri, ci viene in mente il completamento della riforma della giustizia. Materia su cui oltretutto pende un referendum voluto da Lega e radicali. In molti hanno notato che negli scrutini precedenti all’ottavo, quelli in cui potevano esprimersi in libertà, i parlamentari hanno votato, a parte Mattarella, per due magistrati (uno ex) che in tema di giustizia hanno idee non proprio collimanti: Carlo Nordio e Nino Di Matteo. Non nomi di loro colleghi politici, ma di due campioni (togati) della trentennale contesa orribilmente denominata «tra garantisti e giustizialisti». C’erano stati, è vero, raggruppamenti che avevano dato indicazione di voto a favore di Nordio e Di Matteo. Ma per entrambi i suffragi sono stati più di quelli attesi. Vorrà dire qualcosa?
Paolo Mieli
[ CORRIERE DELLA SERA ]
Illustrazione di Doriano Solinas