“Non sono tagliata per starmene tutto il giorno in casa, sia pure esplicando tutte le attività che la posizione comporta. Eppure la famiglia mi piace, la casa anche, i bimbi pure. Ma così facendo non mi sento parte della società, mi sento un nulla e diventa sempre più difficile credere il contrario. Vorrei lavorare al di fuori della mia casa. La casa, per me, dovrebbe essere il caldo rifugio dopo il lavoro, un lavoro che sia veramente lavoro, per il quale la fatica sia una soddisfazione della propria volontà.” Lo scriveva la giornalista Tina Merlin, nel 1952.
Quante volte si sente dire “oggigiorno non è più come un tempo: le donne lavorano, sono indipendenti”. È davvero così? Certamente moltissime cose sono cambiate, non si pùò certo negarlo, ma le donne che hanno un’età idonea al lavoro e che non lavorano, o che smettono di lavorare dopo la nascita del primo figlio per fare le casalinghe, anche per scelta propria, oggi sono ancora parecchie: molte di più rispetto ad altri paesi europei come Francia, Germania e Spagna. La partecipazione delle giovani donne al mercato del lavoro sarà un traino cruciale per il benessere del paese. L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. I servizi gratuiti come strade, sanità, scuola, welfare per il supporto all’indigenza o alla gestione dei figli si sostengono anche grazie alle imposte sui redditi da lavoro regolare (di chi non evade, chiaramente).
4 giovani donne su 10 non lavorano
4 donne su 10 fra i 35 e i 44 anni non lavorano, contro il 15% degli uomini. Se consideriamo il tasso di attività e non di occupazione, cioè includiamo anche le donne che studiano, siamo a 7 su 10 donne impegnate. 3 sono cioè inattive, cioè si dedicano unicamente a casa e famiglia. Oppure, al massimo hanno un qualche lavoro saltuario in nero, quindi senza alcun diritto o garanzia di disoccupazione. Se allarghiamo la fascia alle 30-69 enni, sono 7,5 milioni le donne che non lavorano (il 42%), con un picco del 58% di quelle residenti al Sud. Non lavora un terzo esatto delle donne residenti al nord (34% del totale) e il 37% di chi abita nelle regioni del centro.
Si tratta di dati elaborati da Randstad alla fine del 2021, e che considerano la definizione Istat di Casalinga, ovvero una donna che non ha svolto almeno un’ora di lavoro nella settimana di riferimento o che non cerca lavoro.
Il tasso di inattività delle donne giovani italiane è molto alto rispetto ad altri paesi come Germania, Francia e Spagna. La differenza fra tasso di inattività maschile e femminile in Italia è del 23,2%, contro il 12% europeo e percentuali inferiori al 10% in Francia, Germania e Spagna. In Italia, su 8,6 milioni di occupate tra i 30 e i 69 anni, 2,8 milioni, ovvero il 32,6% lavora part-time. Quasi tre occupati part-time su quattro sono donne. Perchè? Sul totale delle donne che non lavorano a tempo pieno, il 16% dichiara di lavorare part-time per prendersi cura dei figli, di bambini e/o di altre persone non autosufficienti.
Le famiglie dove la donna non lavora hanno spesso diritto ad assegni al nucleo familiare (ANF). Stando ai dati INPS, nel 2020 i beneficiari di ANF sono stati poco meno di 3 milioni: 2.572.065 fra i lavoratori dipendenti nel privato, 5.900 parasubordinati, 228.118 lavoratori agricoli e 63.109 lavoratori domestici. Siamo fra i 1000 e i 1100 euro in media mensili.
Le casalinghe
Non tutte le casalinghe sono uguali. La statistica più significativa di riferimento è ancora quella di Istat del 2017, che ci offre comunque un ordine di grandezza del fenomeno, che la pandemia può solo aver esacerbato: il 12% delle 35-44 enni è casalinga, e il 17% delle 45-54 enni, percentuali grosso modo simili rispetto a 10 anni prima. Poco più della metà delle casalinghe non ha mai svolto attività lavorativa retribuita nel corso della vita e soltanto il 38,9% delle casalinghe che vivono in coppia possiede un bancomat o una carta di credito.
Si può “stare a casa” per scelta o per obbligo. Sulle ragioni dell’obbligo si scrive molto, anche noi di Infodata. Ma perché una donna che potrebbe lavorare decide di stare a casa? I forum e i blog di donne casalinghe per scelta sono diversi. Le storie sono tante. Istat ha cercato di misurare la soddisfazione personale delle donne casalinghe ed è emerso che solo una su tre si considera molto soddisfatta della propria vita; fra le lavoratrici siamo al 45%. Tolte le donne in famiglie molto benestanti, chi appartiene a famiglie monoreddito ha una probabilità maggiore di difficoltà economiche. Quasi la metà delle casalinghe (il 47,4%) afferma che le risorse economiche della famiglia sono scarse o insufficienti, tra le occupate la quota scende al 30,8%.
Le giovani mamme che si licenziano
Nel 2020, nel mezzo della pandemia, 42.000 genitori di bambini tra gli 0 e i 3 anni si sono dimessi, nel 77% dei casi donne. Nello stesso anno una ragazza su quattro ha pensato di abbandonare il lavoro, contro un uomo su cinque. Un documento dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro evidenzia che in presenza di anche solo un figlio la partecipazione maschile aumenta e quella femminile si riduce, mentre l’inattività delle donne aumenta, e quella degli uomini diminuisce. Nelle famiglie di under 50 con almeno un figlio la metà delle donne non lavora e il 40% è inattiva, contro il 10% degli uomini disoccupato e il 5,5% inattivo. Stanno a casa per motivi diversi: gli uomini prevalentemente per investire sulla formazione e magari garantirsi una professione meglio retribuita, mentre fra le donne il principale motivo della condizione di inattività è la cura dei familiari.
Sono le donne più povere a licenziarsi dopo la nascita del primo figlio. Sul complesso delle/dei richiedenti, il 61% ha 1 figlio, il 32% ne ha 2 e il 7% più di 2. L’età del figlio che più incide sugli auto licenziamenti è quella fino ad 1 anno, seguita da quella sino ai 3 anni. La maggior parte dei provvedimenti di convalida riguarda lavoratrici e lavoratori con qualifica di impiegato, pari a 20.375 e di operaio, pari a 18.603. In entrambe le qualifiche, la netta prevalenza è costituita da lavoratrici madri, pari all’84,4% degli impiegati (a fronte del 15,6% rappresentato da uomini) e al 70,6% degli operai (a fronte del 29,4% costituito da uomini). La metà delle convalide relative a donne si riferisca al profilo impiegatizio e il 40% a quello operaio. Molto minore la quota delle convalide che interessano le posizioni apicali ricoperte da donne (che si attesta al 2% per il profilo di quadro e all’1% per il ruolo di dirigente.
“È giusto, dopotutto”
Un documento dell’Unione Europea del 2018 riportava che il 44% degli europei dichiara che per una donna il compito principale è occuparsi della casa e della famiglia. In Italia Istat ha raccontato che gli stereotipi sul “ruolo” della donna sono ancora ben radicati (ne parlavamo qui) . 10 regioni su 20 inoltre sono più le donne (in certi casi molte di più!) degli uomini a pensare che dovendo scegliere fra un uomo e una donna per un unico posto di lavoro, sia meglio scegliere l’uomo. La preponderanza delle donne emerge anche di fronte all’affermazione “per l’uomo, più che per la donna, è molto importante avere successo nel lavoro”.
Di fronte all’avvicinarsi delle Elezioni politiche, non è possibile parlare di lavoro, di PIL e di ripresa del paese senza affrontare seriamente il tema del lavoro e della partecipazione sociale alla cosa pubblica delle giovani donne, delle madri.
Cristina Da Rold
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