Quanti dei nove milioni di afghani registrati nelle liste elettorali sfideranno le minacce dei talebani per recarsi alle urne? Nel Paese dove gli Stati Uniti combattono la loro più lunga guerra di sempre, e dove i gruppi di insorti continuano a controllare almeno un terzo del territorio, le elezioni per rinnovare il Parlamento somigliano a un atto ostinato della Comunità internazionale per mostrare al mondo che, comunque, qualcosa è stato fatto.
Che dopo 17 anni di guerra, migliaia di militari della Nato caduti sul campo, decine di migliaia di vittime civili, e miliardi di dollari dei contribuenti americani (ma anche europei), insomma che dopo tutto ciò il lento cammino di questo martoriato Paese verso la transizione democratica sta comunque andando avanti.
Un voto per nascondere la mancanza di exit strategy
La verità, in parte, è un’altra. Molti afghani non sanno nemmeno per chi votare, altri ancora, soprattutto nelle più impervie regioni di montagna, non sanno nemmeno per cosa, i sospetti di potenziali brogli su larga scala sono credibili, in particolare nelle aree controllate dai signori della guerra. Le istituzioni afghane e l’attuale struttura militare, per quanto migliori rispetto al passato, non sono ancora capaci di garantire lo svolgimento corretto di un’elezione.
Si rischia dunque di vedere una storia già vista. Con la differenza che questa volta i movimenti dei talebani (capaci di operare sul 70% del territorio) potrebbero essere ancora più risoluti a far boicottare il voto. Le notizie non sono rassicuranti: sembra che i leader dei principali gruppi si siano incontrati e abbiano deciso di cogliere l’opportunità di far deragliare il voto e sancire il fallimento del processo democratico. Tanto che sono stati dichiarati bersagli legittimi tutti i seggi elettorali. I feroci miliziani della “provincia del Khorasan”, la branca regionale dello Stato islamico, proveranno anch’essi a fare la loro parte, cercando di portare a termine brutali attentati per imporre la loro presenza.
Ucciso un famoso generale: voto rinviato a Kandahar
Sul fronte della sicurezza la situazione è dunque ancora molto preoccupante.
Se ce ne fosse stato ancora bisogno, il grave attentato avvenuto giovedì contro uno dei più potenti generali del Paese dimostra ancora una volta quanto sia precaria la situazione dopo 17 anni di guerriglia strisciante. E quanto gli insorti siano ancora capaci di penetrare le maglie degli apparati di sicurezza afghani colpendo i bersagli più illustri. Come il generale Abdul Razeq, 39 anni, capo della polizia della riottosa provincia di Kandahar (e uno dei militari più influenti di tutto il Paese), ucciso giovedì scorso da una sua guardia del corpo proprio mentre stava lasciando un compound super protetto dove aveva incontrato il generale americano Scott Miller, comandante della forze Usa e delle forze Nato in Afghanistan (scampato all’attentato).
Razeq era sì un uomo brutale, un personaggio controverso, accusato di violazioni dei diritti umani e torture nei confronti dei prigionieri, di essersi arricchito con traffici oscuri, ma era uno dei generali più apprezzati dagli americani proprio per il suo pugno duro e per i suoi successi militari contro i talebani (che hanno rivendicato l’attentato). La sua morte ha fiaccato il morale delle forze di sicurezza del distretto lasciandosi dietro un vuoto. Le autorità afghane hanno così deciso che nella provincia meridionale di Kandahar, nota per essere stata a lunga la roccaforte dei talebani, il voto sarà rimandato. Almeno di una settimana.
I numeri delle elezioni
Gli elettori presenti nelle liste della Commissione elettorale indipendente, l’organo preposto a gestire l’intero processo elettorale, sono 8,9 milioni, di cui circa 3 milioni donne. Dovranno scegliere tra oltre 2.500 candidati che si contenderanno i 250 seggi della Wolesi Jirga (il Parlamento). È la terza elezione parlamentare dalla caduta del regime dei talebani (fine del 2001). Le donne candidate rappresentano comunque il 16 per cento. Ma la loro presenza non è ben distribuita sul territorio. In diversi distretti non vi sono donne tra i candidati, o ve ne sono troppo poche. In altri ancora anche i candidati uomini scarseggiano. Sui numeri, comunque, non c’è certezza. Nemmeno la Commissione conoscerebbe con precisione il numero esatto dei candidati.
Il dubbio esperimento di condivisione del potere
Le elezioni sono comunque importanti. Perché avranno anche il compito di spianare la strada per le prossime elezioni presidenziali, previste nel mese di aprile del 2019. Ma anche su questo fronte i risultati finora non sono stati incoraggianti. La formula per dare un embrione di stabilità al Paese non sembra aver convinto molti afghani. Dopo le contestate elezioni presidenziali del 2014, Ashraf Ghani, votato presidente, e Abdullah Abdullah, divenuto “Chief executive officer”, hanno dato il via – “caldeggiati” dell’allora segretario di Stato Usa, John Kerry – a una sorta di Governo di unità nazionale ideato per superare il loro acceso antagonismo. Ma l’esperimento, peraltro non previsto nella Costituzione, non sembra aver dato risultati brillanti. Ed è stato peraltro visto da molti elettori come una pesante ingerenza americana.
Un caos controllato dove nessuno vince
Diviso, in alcuni momenti paralizzato, il Governo afghano ha faticato, e tutt’ora fatica a imporre la propria autorità su due terzi del Pese. Il resto è in mano ai talebani, ai miliziani dell’Isis e ad altri gruppi di insorti. Che hanno vita facile nelle aree rurali e nelle regioni montagnose.
È una situazione di pericoloso stallo. Le forze straniere –quasi tutte con compiti di addestramento dell’esercito afghano- sono inadeguate per numero. In altre parole sono sufficienti a non far vincere la guerra ai talebani, ma insufficienti a fargliela perdere. Insomma, in Afghanistan per ora regna un “caos controllato”.
Trump trascinato nel pantano afghano
Il presidente americano Donal Trump avrebbe fatto volentieri a meno dell’Afghanistan, ritirando subito i militari americani. Ma l’Afghanistan è una crisi a cui nessun presidente americano può sottrarsi. Trump ha dovuto dunque fare il contrario di quanto andava dicendo in campagna elettorale. L’anno scorso ha infatti aumentato il numero dei militari americani portandoli da 8.500 ad almeno 14 mila effettivi. La maggior parte con compiti di addestramento e una restante parte concentrata su operazioni di controterrorismo.
Basteranno a imprimere una svolta al conflitto più lungo e costoso mai combattuto dagli Stati Uniti ?
Basta guardare indietro di 7 anni per avere una risposta. Tra il 2009 e il 2010 il numero complessivo delle truppe Nato arrivava a 150mila effettivi (oltre 100mila soldati americani). L’obiettivo allora era davvero ambizioso: sconfiggere i Talebani. Cosa non avvenuta.
Trump ha preferito optare per una nuova strategia; più libertà ai bombardamenti aerei – con buona pace dei “danni collaterali” (vittime civili uccise per errore) – e piccoli gruppi di forze speciali sotto copertura nelle regioni più difficili.
In altre parole, al presidente americano non sembra interessare una reale ricostruzione politica e istituzionale del Paese. È una scelta, quest’ultima, più complessa. Sicuramente più lunga e onerosa, ma forse è la sola ad avere chance di successo. Un successo duraturo, e non effimero.