martedì, 26 Novembre 2024

Afghanistan: il grand bargain di Mosca è già cominciato

Giuliano Battiston (ISPI)

“Le grandi nazioni non combattono guerre senza fine”. Nel discorso di martedì 6 febbraio sullo Stato dell’Unione, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha difeso la politica di disimpegno militare dalla Siria e dall’Afghanistan. Dopo aver ricordato i costi delle guerre – “circa 7,000 eroi americani morti”, “52.000 feriti”, “7 triliardi di dollari spesi” – e  i successi sul campo – “liberato praticamente tutto il territorio” in Iraq e Siria controllato dallo Stato islamico –, Trump ha ribadito che è “tempo di dare il benvenuto a casa ai nostri coraggiosi guerrieri in Siria”. Quanto all’Afghanistan, ha detto di aver “accelerato le negoziazioni per raggiungere un accordo politico”.

Il riferimento è ai recenti colloqui avvenuti a Doha, in Qatar, tra il suo inviato speciale, Zalmay Khalilzad, e alcuni rappresentanti del movimento degli studenti coranici, da cui è emersa una bozza di accordo che prevede il ritiro delle truppe straniere in cambio dell’impegno dei Talebani a impedire che l’Afghanistan venga usato da gruppi jihadisti a vocazione transnazionale. È la «svolta diplomatica» di Trump, viziata da molti fattori.

Oltre alle tante incognite che separano un’intesa preliminare da un accordo vero e proprio e un accordo da un processo che conduca alla pace, la posizione dell’amministrazione americana sconta due debolezze principali: il mancato coinvolgimento del governo afghano, escluso dai colloqui e ulteriormente delegittimato, e l’isolazionismo del presidente Trump che, pur essendo riuscito per il momento a ottenere il sostegno dei sauditi e dei pachistani, considera il multilateralismo una perdita di tempo. È invece indispensabile per mettere fine al conflitto.

Gli attori regionali sono cruciali e hanno un peso politico rilevante: quattro potenze nucleari, Cina, India, Russia, Pakistan, a cui si aggiunge l’Iran. Nel 2005 questi Paesi hanno male accolto la Dichiarazione di partnership strategica tra Usa e Afghanistan con cui Washington segnalava di voler stabilire un’egemonia permanente sul Paese, “rivoluzionando l’equilibrio strategico in Eurasia”, come ricorda Barnett Rubin. Nel settembre 2014, la firma dell’Accordo di sicurezza bilaterale tra Usa e Afghanistan non ha fatto che esasperare i loro rapporti bilaterali, già conflittuali, con Washington. Per anni hanno dovuto bilanciare il sospetto verso i piani egemonici statunitensi con le preoccupazioni per gli effetti di un ritiro troppo veloce degli americani dal Paese. Un disimpegno che ora viene negoziato senza il loro parere. Da qui, ulteriori preoccupazioni e un maggior attivismo. Soprattutto da parte di Mosca.

Il 4 febbraio il ministro degli esteri russo Sergei Lavrov ha accusato gli Stati Uniti di voler «monopolizzare» i colloqui di pace con i Talebani e di tenere all’oscuro i Paesi della regione.  Il 5 e 6 febbraio, in un hotel di Mosca di proprietà statale si è tenuto un incontro tra gli stessi rappresentanti dei Talebani presenti ai colloqui di Doha e decine di esponenti della politica afghana, perlopiù all’opposizione del presidente Ashraf Ghani, tra cui l’ex presidente Hamid Karzai, l’ex consigliere per la sicurezza nazionale Hanif Atmar, l’ex governatore della provincia di Balkh, Atta Mohammad Noor.

La dichiarazione finale è sufficientemente generica da soddisfare tutti i presenti e allude in modo vago ai passi da compiere per trovare la pace. Quel che più conta, però, è il segnale politico: Mosca non intende restare fuori dal processo che disegnerà il futuro dell’Afghanistan. L’attivismo di Mosca non è nuovo, ma è stato a lungo frenato dalla memoria storica. Cominciata nel dicembre del 1979 e conclusa nel febbraio del 1989,  l’occupazione sovietica ha prodotto quello che lo studioso russo Vladimir Boyko ha efficacemente descritto come «sindrome afghana». A vent’anni esatti di distanza dal ritiro, la sindrome pare però archiviata, e Mosca intende assumere un ruolo da protagonista nella complicata partita afghana.

Il primo incontro rilevatore della nuova fase risale al 27 dicembre 2016, con la conferenza trilaterale sull’Afghanistan con i rappresentanti di Russia, Cina e Pakistan, al termine della quale la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, ha invocato «un approccio flessibile» come mezzo “per favorire un dialogo di pace tra Kabul e il movimento talebano”. Più esplicito Zamir Kabulov, già diplomatico dell’ambasciata sovietica a Kabul al tempo dell’occupazione (e per qualcuno anche agente del Kgb), poi ambasciatore e inviato del presidente Putin in Afghanistan,  che in un’intervista all’agenzia giornalista turca Anadolu  rende chiaro il nuovo approccio di Mosca ai Talebani, un tempo visti come nemici (nel 2000 avevano riconosciuto la richiesta unilaterale di indipendenza della Cecenia). Per Kabulov «la maggioranza dei Talebani, inclusa la leadership», non è che “una forza locale”, “che ha abbandonato l’idea del jihad globale”.

Ecco il cambio di rotta. Per Mosca, i Talebani diventano alleati contro l’espansione dello Stato islamico e di altri gruppi jihadisti dalla vocazione transnazionale in Asia centrale. Una posizione ribadita nell’incontro tenuto lo scorso novembre nella capitale russa con i rappresentanti di 12 Paesi tra cui Russia, Cina, India, Iran, Pakistan e 5 esponenti dell’Ufficio politico dei Talebani a Doha. “I nostri Paesi stanno affrontando un’insorgenza internazionale e uno dei loro obiettivi è l’Afghanistan. Lo Stato islamico è l’avanguardia di questi gruppi e sta cercando di trasformare l’Afghanistan nella propria base per espandersi poi in Asia centrale e oltre. L’obiettivo di tutti questi paesi è di sostenere l’Afghanistan per sradicare questo pericolo”. Così ha sostenuto il ministro Lavrov introducendo l’incontro.

Pochi giorni fa l’inviato del presidente Trump, Khalilzad, ha chiesto ai Talebani l’impegno a combattere contro i gruppi jihadisti transnazionali. Una posizione che ricalca quella che i russi hanno adottato da tempo. E che si basa sulla necessaria distinzione tra il jihad nazionale dei Talebani, circoscritto alla cornice dell’Afghanistan e limitato a liberare il Paese dalle truppe straniere, e il jihad globale, settario, sanguinario e alieno a ogni  compromesso dello Stato islamico.

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