Dopo gli scandali sessuali facciamo il punto in questa intervista alla psicologa sociale Chiara Volpato e alla psicoterapeuta Stefania Andreoli. L’immobilismo degli uomini e le responsabilità delle donne
«Quante storie per una mano sul sedere»
«E se fosse successo a sua figlia?»
«Mia figlia l’avrebbe rimesso al suo posto con un cazzotto».
Una conversazione in lavanderia, a Milano. Declinata, con poche variazioni, in ogni ufficio, in ogni città. E poco importa che la Cassazione abbia stabilito ancora una volta che una mano sul sedere sull’autobus sia violenza sessuale. Il caso Weinstein ha sollevato un’ondata di denunce e polemiche in tutto il mondo, fino a strabordare anche in Italia. Ha suscitato dibattiti, confronti, scontri. Eppure oggi la reazione finale spesso è questa: quante storie per una mano sul sedere. Anche da parte delle donne. Fa il paio con l’accusa alle vittime di «non avere denunciato subito» e di «non avere denunciato alla polizia».
Ieri il Daily News ha pubblicato un articolo intitolato «Italia, dove le vittime di aggressioni sessuali sono infangate». Abbiamo provato a parlarne con Chiara Volpato, psicologa sociale dell’Università Bicocca di Milano, autrice di Psicosociologia del maschilismo (Laterza), e con Stefania Andreoli, psicoterapeuta e psicoanalista, fondatrice dell’associazione Alice Onlus, che si occupa di prevenzione e formazione sui temi del disagio adolescenziale e della violenza di genere. Per fare un primo bilancio. Per chiederci, davvero: e ora? Andreoli: «Questa vicenda è una sorta di “bomba” che esplode e fa succedere delle cose: quali siano non è immediatamente registrabile. Adesso vediamo il polverone. Certo, la percezione che abbiamo della violenza sulle donne resta distorta, lo dimostra anche il test del Corriere : non sempre abbiamo la competenza per dire dove stia il limite, dove finisca un normale tentativo di approccio e dove inizi il reato».
Volpato: «Io però mi aspetto che qualcosa cambi, quando un fenomeno del genere viene allo scoperto è sempre positivo: d’ora in poi credo che ci sarà un po’ di attenzione in più da parte di tutti e un po’ di coraggio in più da parte delle donne nel rendere pubbliche molestie e violenze. Insieme però a una reazione ostile da parte di alcuni uomini, non di tutti certo, che infatti si è già vista».
Stando ai loro racconti, sia nel caso Weinstein sia in quello italiano del regista Fausto Brizzi, gli agenti delle vittime hanno sempre consigliato di tacere, perché parlare «ti nuoce alla carriera». Probabilmente anche alla loro. Molti sapevano, hanno fatto finta di niente, mentre avrebbero potuto/dovuto dire qualcosa subito.
Volpato: «C’è una collusione evidente con questi comportamenti, sia maschile sia di una parte delle donne. Le ricerche su questi argomenti dimostrano che anche le donne possono indossare il mantello del sessismo benevolo. Anzi, più in un Paese c’è disuguaglianza di genere, più le donne diventano sessiste».
Cosa intende con «sessismo benevolo»?
Volpato: «Il sessismo ostile è quello tradizionale, in base al quale la donna è considerata inferiore. Il sessismo benevolo afferma invece che gli uomini e le donne sono diversi, la donna ha caratteristiche positive legate al calore, alla cura, alla capacità di relazione, però è considerata più fragile, un oggetto grazioso da proteggere, e certe cose non può farle. “Sei carina, ma devi stare al tuo posto”».
Per alcune donne la «connivenza» è anche un modo di assicurarsi un lavoro o avere dei vantaggi.
Andreoli: «Mi chiedo, un po’ cinicamente forse, se il gioco valga la candela. Qui non stiamo parlando di diventare Meryl Streep o di entrare nella Hall of Fame. Qui si tratta di lavorare o no, e in cambio otterrai qualcosa di talmente ordinario che va anche a svilire che cosa mi chiedi per farlo. Diventa tutto poverissimo: è questo che viene fuori di drammatico, siamo a livelli molto bassi».
Volpato: «Però è proprio ai livelli bassi che c’è più bisogno di lavoro, la costrizione più pesante è lì».
Una delle conseguenze delle denunce sugli stupri nei campus in America è stata aprire una discussione tra gli universitari su cosa significhi consenso, sui limiti della violenza. Vi sembra che tra i giovani italiani stia succedendo?
Andreoli: «Io ho a che fare soprattutto con i giovani tra i 15 e i 25 anni e tra loro non la registro. Prima di arrivare al consenso devono ancora imparare a decifrare la grammatica delle relazioni. Un mio paziente di 16 anni, molto in gamba, mi ha raccontato che si è innamorato di una compagna di scuola, ma non riesce a cogliere i suoi segnali, a capire, fra un like su Facebook e un messaggio su WhatsApp, se lei è interessata. A un certo punto mi dice: “Mi sento come se mi avessero abbandonato nella Cina rurale e nessuno parlasse inglese”. E questo a un età in cui i più hanno già debuttato dal punto di vista sessuale».
Volpato: «Tra gli studenti all’università invece c’è più coscienza di una volta, il tema comincia ad affiorare e a essere dibattuto. Questi però sono processi lunghissimi: abbiamo alle spalle secoli di maschilismo, è chiaro che il cambiamento non avviene in 50 anni, ha bisogno di tempo, fa passi in avanti e passi indietro, anche perché ci sono le reazioni ostili a cui abbiamo già accennato»
Forse servirebbe rilanciare l’educazione sessuale nelle scuole? E non intesa solo come: vi spieghiamo come usare i contraccettivi. Ma che insegni ai ragazzi e alle ragazze a confrontarsi con domande fondamentali e quotidiane: se lei ha bevuto, vale il sì o vale il no? Come funziona? Questo genere di discussioni a scuola si fanno pochissimo. Andreoli: «Sono affidate a presidi illuminati e a qualche associazione che porta i progetti nelle scuole con quel che resta dei soldi dell’autonomia. Ma bisognerebbe fare di più. Non penso che tanti risponderebbero che no, non è opportuno. D’altronde a 15-16 anni non mi aspetto che una risposta ce l’abbiano».
Non dovrebbero averne già parlato con un genitori? Ci si aspetterebbe invece che la madre o il padre glielo abbiano spiegato.
Andreoli: «Per farlo servono genitori molto adulti, risolti nel loro modo di vivere il sesso e le relazioni, ma oggi non è cosi: gli adulti con i rapporti fanno fatica, madri e padri rispetto al loro coté coniugale vivono un senso di precarietà, i matrimoni non sono più avamposti saldi e non so quanto spazio ci sia nella famiglia per affrontare bene questi temi. Le mamme dei maschi ce l’hanno più aperta questa domanda e questa è una novità: la responsabilità di far crescere individui che diventeranno uomini».
La consapevolezza e la responsabilità di educare un maschio.
Volpato: «Il problema in Italia è soprattutto il maschile, non il femminile. Tutte le ricerche dicono che il femminile è in movimento, con passi avanti e passi indietro, mentre il maschile è statico. Sia per quanto riguarda l’immagine maschile, o stereotipo maschile, su come gli uomini si vivono, sull’educazione che danno ai figli, il risultato è sempre lo stesso: il maschile è molto più fermo, s’interroga di meno, magari è sulla difensiva rispetto a discorsi come quelli che stanno venendo fuori sulle molestie. Non si vede una grande elaborazione».
Uno dei temi emersi nella discussione post Weinstein è il non saper reagire alle molestie o alle violenze. Lo stesso implicito nel discorso della lavandaia: «Mia figlia gli darebbe un cazzotto». Quindi quella che non lo fa è un po’ colpevole, o quantomeno complice. È così?
Andreoli: «No. Il non reagire in psicologia si chiama “congelamento”, è un meccanismo di difesa della psiche: serve a scindere il corpo dalle emozioni, a non registrare la ferita che stai sentendo in quel momento. È un vissuto tipico, si contano sulle dita di una mano le vittime di abusi sessuali che non riferiscono questa sensazione. Purtroppo spesso va a braccetto con la convinzione di essere parzialmente colpevole perché non ti sei sottratta. L’idea (sbagliata) di essere stata complice è un seme che agisce anche nelle vittime con effetti devastanti. “Non sono riuscita a proteggermi” è un pensiero difficilissimo con il quale stare. A rendere ancora più grave il trauma dell’essere state violate c’è poi che è difficilissimo vedersi riconoscere questo vissuto. Quello che le mie pazienti mi riportano in terapia non è “mi hanno toccata” ma “non ho potuto parlare in casa perché non mi avrebbero creduto” o ancora peggio “mia madre mi ha creduto e mi ha detto che sono stata scema”. È lo stesso motivo per cui non denunciano, come mi ha detto una mia paziente: “Non so se le forze dell’ordine la chiamerebbero violenza, perché io non ho detto di no e avevo bevuto”». Volpato: «Sì, c’è spesso un processo di colpevolizzazione della vittima. Anche di fronte all’esibizionista in treno chi di noi denuncia? Pochissime. E se lo racconti spesso la risposta è banalizzare, come se non avesse importanza: “Sei un’adulta, basta, che bisogno c’è di tornarci sopra, sono cose che succedono, non ci pensare”. In questo senso ho l’impressione che le donne siano sole, non c’è il sostegno istituzionale che legittima la loro protesta. E per istituzioni intendo le persone che incarnano le leggi, a tutti i livelli: poliziotti, giudici, avvocati, amici, colleghi. Manca una cultura condivisa. E invece deve esser costruita, ecco perché penso che un dibattito sia positivo».
Vedete dei segnali positivi di cambiamento?
Volpato: «Sì, ci sono: per esempio nello sconosciuto che assiste a una molestia in treno e si offre di fare da testimone per una denuncia; nel fatto che ne stiamo parlando. Un altro segno di cambiamento lo vedo ascoltando i nuovi padri: ho l’impressione che non ci sia più la colpevolizzazione delle figlie che c’era una volta, è cambiato il loro sguardo. Nessuno accuserebbe la figlia – ti è successo perché avevi la gonna corta, perché sei cretina, perché sei una poco di buono – non è più lei che provoca, ma è il mondo che è fatto in un certo modo».
Andreoli: «Non so neanche se i padri possano più permettersi quello sguardo lì, giudicante, perché non hanno più la credibilità superegoica di chi incarna la legge, non incarnano più l’autorità. Mia figlia maggiore ha 5 anni e mezzo, e una delle poche cose chiare che ha nella vita è: “tu non mi puoi obbligare”, che dice a me tanto quanto a suo padre. E dentro di me penso: ma aspetta, è vero? Mio padre mi ha obbligata, eccome. E quindi c’è questo che io leggerei in un’ottica di dinamiche interfamiliari e di significati profondi simbolici di ruolo».
Però forse una figlia che pensa del padre “tu non mi puoi obbligare” è quella che quando si troverà davanti un uomo che vuole farle fare qualcosa che non vuole forse non si “congela”.
Andreoli: «Speriamo, dopodiché chiudiamo il cerchio. Abbiamo davanti una decina d’anni per vedere i fiori nati da questi semini». Chiudiamo con la riflessione della scrittrice Naomi Alderman, che sul New York Times risponde alla domanda: come far sì che questa vicenda non susciti reazioni avverse e cambi davvero le cose? «Avremo bisogno di conversazioni prolungate e complesse tra i giovani uomini e donne su che cos’è il consenso, cos’è l’abuso di potere, sul perché incoraggiamo gli uomini – che già sono più alti, più forti, più muscolosi – a essere aggressori sessuali, mentre ancora presumiamo che le ragazze debbano farsi belle e aspettare passivamente di essere cercate».