lunedì, 25 Novembre 2024

BREXIT. E’ VERO ACCORDO?

Matteo Villa e Antonio Villafranca / ISPI (ISTITUTO PER GLI STUDI DI POLITICA INTERNAZIONALE)

 

A quasi due anni e mezzo dal referendum su Brexit e dopo un negoziato estenuante, Unione europea e Regno Unito hanno finalmente raggiunto un accordo. Questo include sia l’accordo di recesso che la dichiarazione politica sul futuro rapporto tra Londra e Bruxelles. I leader europei hanno approvato l’accordo nel Consiglio di ieri, e da parte dell’Ue manca ormai solo il passaggio dal Parlamento europeo, che non dovrebbe riservare sorprese.

Lo scenario è totalmente diverso quando si guarda al Regno Unito: decine di conservatori del Parlamento di Westminster sarebbero pronti a votare contro l’accordo il prossimo dicembre, facendo fronte comune con l’opposizione (laburisti, nazionalisti scozzesi e lib-dem) e gli unionisti nordirlandesi. Se così fosse, l’accordo potrebbe essere bocciato dal Parlamento inglese e la prospettiva di una hard Brexit, ovvero di un Brexit senza accordo, rischierebbe di diventare realtà.

Ma cosa prevede esattamente l’accordo Ue-UK, e chi ha prevalso tra Londra e Bruxelles? Quali sono i possibili scenari da qui alla scadenza ultima per Brexit? E quali i possibili rischi per l’Italia?

TRA LONDRA E BRUXELLES:
CHI HA VINTO?
 

Con estrema diplomazia, il Presidente del Consiglio europeo Donald Tusk sostiene che non ha vinto nessuno: nelle sue parole, quella di Brexit è una situazione “lose-lose”, in cui a perderci sono sia l’Ue che il Regno Unito.

Diplomazia a parte, l’ago della bilancia in realtà pende decisamente di più verso Bruxelles. Date le spaccature interne all’Ue su vari dossier, non era per nulla scontato che su Brexit i leader europei mostrassero una totale unità di intenti, che si è tradotta in un peso negoziale decisamente a favore dell’Ue. A questo risultato hanno anche contribuito le regole già scritte nei Trattati europei, che nei casi di uscita di un paese dall’Ue prevedono un negoziato centralizzato e guidato dalla Commissione. Ma i singoli stati avrebbero comunque potuto “sabotare” il processo se, per esempio, non avessero raggiunto un accordo preciso sul mandato negoziale da conferire alla Commissione nelle varie fasi delle trattative. Cosa che invece hanno fatto.

Sull’altra sponda della Manica invece un governo britannico debole, spaccato al suo interno e segnato da ripetute dimissioni di esponenti di primo piano (da Boris Johnson ai due Ministri incaricati di gestire Brexit, David Davis a luglio e Dominic Raab a novembre) ha certamento giocato a sfavore di Londra, in una corsa comunque già in salita.

Nei fatti, l’Ue è rimasta inflessibile sulle proprie red lines, a partire dal fatto che a May non sarebbe stato concesso di  fare cherry picking, ovvero di conservare i benefici dell’Ue (per esempio l’accesso al mercato unico) senza farsi carico dei suoi costi (contributi finanziari al bilancio, libertà di circolazione delle persone e dei capitali, incluso un apparato regolatorio troppo ingombrante in alcuni settori). In estrema sintesi: o si è dentro o si è fuori. Il governo tory da tempo aveva scelto la strada di uscire, salvo poi dover trovare un escamotage per mantenere uno stretto rapporto con l’Ue ed evitare un confine fisico tra Repubblica d’Irlanda e Irlanda del Nord.

COSA PREVEDE L’ACCORDO?
L’accordo raggiunto la settimana scorsa finalizza i punti più controversi, anche se in realtà un consenso di massima su due questioni di fondo era già stato trovato quasi un anno fa. Il primo riguarda il cosiddetto “costo del divorzio”, ovvero i soldi che Londra dovrà versare nelle casse comunitarie nei prossimi anni, per far fronte agli impegni già presi a livello comunitario fino al 2020 e ad altri costi legati alla permanenza per quasi mezzo secolo nell’Ue, come ad esempio le pensioni da pagare agli ex funzionari europei di nazionalità britannica. In tutto, le stime parlano di un “conto” che si aggira sui 45-50 miliardi di euro, da versare tra il 2019 e il 2064 (anche se la parte più consistente andrà pagata entro il 2025).

Il secondo punto su cui l’accordo già c’era riguarda lo status dei 3 milioni di cittadini europei residenti nel Regno Unito dopo Brexit, e del milione di cittadini britannici residenti in Ue. Questi manterranno i loro diritti, mentre una diversa gestione dei futuri flussi migratori tra Ue e UK potrà aver luogo solo dopo il periodo di transizione, ovvero il periodo che andrà dall’uscita di Londra dall’Ue a fine marzo 2019 ad almeno tutto il 2020 – periodo necessario per dare tempo a Ue e UK di negoziare il futuro assetto dei loro rapporti bilaterali. Durante il periodo di transizione, le relazioni economiche tra UK e Ue rimarranno inalterate: per esempio, Londra resterà nel mercato unico e continuerà a trarne tutti i benefici attuali. In cambio, il Regno Unito accetterà di applicare la legislazione comunitaria, incluse le eventuali modifiche future, nel merito delle quali Londra non potrà esprimersi perché a Brexit si accompagna la perdita del diritto di voto.

A tenere banco fino alla fine dei negoziati è stata invece la questione dell’Irlanda del Nord. Gli accordi del Venerdì santo di due decenni fa prevedevano, in cambio della cessazione delle ostilità, l’impegno a non creare una barriera fisica tra l’Irlanda del Nord e l’Irlanda. Ma se tra Regno Unito e Ue dovesse mancare l’accordo su un nuovo trattato di libero scambio talmente ambizioso da non prevedere alcuna tariffa su beni e servizi (oltre a tutta l’armonizzazione dei regolamenti, per esempio per gli standard fitosanitari),  le merci in viaggio tra Repubblica d’Irlanda e Irlanda del Nord non potrebbero più circolare liberamente e dovrebbero essere soggette a controllo.

Nel tentativo di trovare un’ipotesi plausibile alla creazione di una barriera fisica sull’isola d’Irlanda, i controlli dovrebbero essere effettuati quantomeno nel mare che separa l’Irlanda del Nord e il resto dell’UK (si tratta del cosiddetto ‘backstop’ voluto dall’Ue). Una ipotesi del tutto irricevibile per il governo May (che peraltro è sostenuto dal voto degli unionisti nordirlandesi) perché equivarrebbe a creare un doppio standard tra l’Irlanda del Nord e il resto del Regno Unito.

La premier May ha cercato di risolvere il dilemma proponendo di creare, dopo il periodo di transizione, una unione doganale. Ipotesi accettata anche da Bruxelles, ma alle proprie condizioni: in questo caso, Londra non avrà un diritto di recesso unilaterale dall’unione doganale stessa; dovrà accettare la legislazione europea in tema di concorrenza e di aiuti di stato (anche la legislazione futura a cui non potrà contribuire); e dovrà accettare che, in caso di controversie, a esprimersi resti la Corte di giustizia europea.

Londra si impegnerà inoltre a garantire un adeguato ‘level playing field’, in modo che le imprese britanniche non possano in futuro fare concorrenza sleale a quelle europee attraverso una regolamentazione meno stringente in campi sensibili come l’ambiente, la tassazione e il lavoro (ad esempio, il Regno Unito non potrà derogare alla direttiva europea sull’orario di lavoro). Rimane ancora opaca la questione degli spazi di manovra per Londra nel concludere accordi commerciali con paesi terzi. Sul punto si tornerà certamente nei negoziati che verranno condotti durante il periodo di transizione.

THERESA MAY RISCHIA IL POSTO?
Ormai da qualche anno è evidente che all’interno del partito conservatore esistono lotte senza esclusioni di colpi per la leadership. Ottenendo una maggioranza persino più risicata di quella precedente, nel 2017 la premier May aveva “non perso” le elezioni che lei stessa aveva indetto. Il risultato aveva costretto May a creare un governo di coalizione con gli unionisti nordirlandesi, senza permetterle di mettere in minoranza i parlamentari del suo partito che chiedevano un approccio più duro con Bruxelles.

La sua leadership era dunque già indebolita, e gli estenuanti negoziati su Brexit hanno ulteriormente aggravato la situazione. Il suo governo da allora ha perso 15 Ministri (tra cui David Davis e Dominic Raab che, in successione, sono stati i Ministri responsabili del negoziato su Brexit), al punto che per il governo May è stato coniato un nuovo termine: Brexodus. All’indomani dell’annuncio dell’accordo con l’Ue, la premier May ha dovuto arginare una nuova ribellione all’interno del suo partito (da parte degli euroscettici dello Europe Research Group) e ha rischiato di essere rimossa dalla leadership. Al momento la questione rimane estremamente incerta e non è da escludere che l’opposizione si faccia promotrice di un voto di sfiducia.

Il punto di non ritorno per la May sarà rappresentato dal voto di Westminster su Brexit, atteso per la prima metà di dicembre. Per superare l’ostacolo, May avrebbe bisogno del voto favorevole di circa 320 deputati. Ma sia le opposizioni, sia gli unionisti nordirlandesi, sia circa 90 conservatori hanno espresso forti dubbi sull’accordo e potrebbero votare contro. Se questo scenario venisse confermato, l’accordo non verrebbe ratificato da Westminster e ci sarebbero quindi poche speranze per May di rimanere al n.10 di Downing Street.

SE SALTA L’ACCORDO:
QUALI SCENARI?
Se a dicembre l’accordo non dovesse essere approvato da Westminster, la probabilità di poter tornare a Bruxelles e negoziare un accordo differente nei pochi mesi che ci separano da Brexit sarebbe molto bassa. La premier May potrebbe decidere di dimettersi, spingendo il Regno Unito verso nuove elezioni e a una battaglia per la leadership del partito conservatore.

Aumenterebbe, dunque, la probabilità di uno scenario di no deal, ovvero di un’uscita non controllata del Regno Unito dall’Unione europea. In questo caso, sul piano commerciale tornerebbero in vigore i dazi previsti dal WTO. Ci si può attendere che, nonostante i piani d’emergenza già preparati da Londra e Bruxelles, si presentino notevoli disagi almeno nei primi mesi, a fronte di dogane non preparate a controllare gli scambi con l’Unione e a fronte del fatto che il Regno Unito scambia con l’Ue quasi la metà di tutte le sue esportazioni e importazioni (mentre per i vari paesi Ue, in media, Londra conta per il 7% del loro interscambio).

Inoltre uno scenario di no deal si accompagnerebbe al probabile rifiuto di Londra di far fronte a quei 45-60 miliardi di debiti con l’Ue a fronte di spese già fatte o di impegni di spesa presi mentre Londra era un paese membro. Una sorta di “default tecnico” che provocherebbe notevoli dissapori con gli altri 27, costretti a far fronte all’ammanco britannico e che non potrebbe non avere ripercussioni sui rapporti eurobritannici.

Oltre a questo scenario, nelle ultime ore sembra affacciarsi anche l’ipotesi di un “piano B”. Sembra infatti che alcuni membri importanti del governo May stiano pensando a una “opzione norvegese”: nel caso l’accordo non venisse approvato da Westminster, il Regno Unito resterebbe nello Spazio economico europeo (SEE), portando a una Brexit un po’ più soft, perché permetterebbe a Londra di mantenere il pieno accesso al mercato unico e di conservare il suo passaporto finanziario. Ma l’ingresso nel SEE non avverrebbe senza costi: in quel caso, infatti, Londra dovrebbe continuare a versare alcuni contributi nelle casse comunitarie, dovrebbe accettare in una certa misura la libera circolazione delle persone, e resterebbe soggetta alla legislazione Ue e alla giurisdizione della Corte europea di giustizia. Una prospettiva ben lontana dal “taking back control” (riprendiamoci il controllo) propugnato dai parlamentari più favorevoli a Brexit.

Infine, è molto probabile che per i nuovi negoziati sarebbe necessario più tempo rispetto ai poco più di tre mesi che separerebbero il Regno Unito da Brexit. L’articolo 50 prevede infatti che i negoziati vengano conclusi “entro due anni” dalla notifica formale della volontà di uscita, che avverrà a fine marzo 2017. Lo stesso articolo consente di prolungare ulteriormente il periodo negoziale, ma solo in caso di accordo unanime tra i 27 paesi Ue restanti. E non è detto che, in caso di mancato accordo, tutti i paesi Ue sarebbero ben disposti a concedere al Regno Unito più tempo rispetto a quanto fatto fino a oggi, con tutto quello che ne discenderebbe. Se infatti il momento dell’uscita formale del Regno Unito da Bruxelles dovesse essere spostato a dopo maggio 2019, ci si ritroverebbe nella paradossale situazione in cui un paese in uscita dall’Unione europea dovrebbe comunque eleggere i propri parlamentari europei, che farebbero poi parte del Parlamento europeo fino al momento dell’uscita ufficiale di Londra.

COSA RISCHIA L’ITALIA?
Tra i grandi paesi Ue, l’Italia è tra i paesi meno esposti a Londra, sia sul piano commerciale che su quello degli investimenti. Dal punto di vista degli scambi di beni, il Regno Unito pesa per poco più del 5% sull’export italiano, raggiunge il 7% per Francia e Germania, e supera quota 10% solo per Paesi Bassi e Irlanda. Va però segnalato che l’Italia ha un consistente surplus commerciale (oltre 10 miliardi l’anno) con la Gran Bretagna, peraltro in aumento negli ultimi anni. L’ipotesihard Brexitavrebbe dunque un impatto sull’economia italiana, in particolare su alcuni settori di punta del nostro export, come la meccanica strumentale, il tessile, il chimico e l’agroalimentare.

Per quanto riguarda gli investimenti diretti esteri (IDE), inoltre, l’Italia è uno dei paesi avanzati meno “internazionalizzati” al mondo, con una quota di IDE diretti verso il paese che non supera il 20% del PIL (contro il 33% della Germania). Gli effetti di una eventuale riduzione degli IDE provenienti dalla Gran Bretagna dovrebbero dunque essere relativamente modesti. Val la pena tuttavia ricordare che gli IDE britannici si concentrano soprattutto in alcune regioni italiane (innanzitutto in Lombardia) e settori (manifatturiero, ICT e commercio all’ingrosso), che potrebbero quindi accusare il colpo in misura proporzionalmente maggiore.

Resta infine da sottolineare che, nonostante l’esposizione dell’Italia verso il Regno Unito sia tra le più basse del continente, il problema maggiore per Roma proviene dal rischio contagio, ovvero la possibilità che eventi che aumentano l’incertezza sui mercati si ripercuotano sulla percezione della solidità dell’Italia. In un momento in cui lo spread tra Btp italiani e Bund tedeschi è salito da quota 150 a maggio a circa 300 negli ultimi mesi, qualsiasi “disruption” in Europa rischia di far aumentare la volatilità dei rendimenti, complicando ulteriormente un quadro già critico.

 

CODICE ETICO E LEGALE