Alla fine, alla vigilia di Natale, l’accordo sui futuri rapporti tra Regno Unito e Unione europea è arrivato. Dopo quasi un anno di negoziati, scadenze disattese e posticipate, e quando in molti avevano perso ogni speranza, gli ultimi ostacoli al compromesso tra Londra e Bruxelles sono stati rimossi.
Nelle ultime settimane Michel Barnier e David Frost, responsabili delle trattative per l’Ue e il Regno Unito, avevano ammesso che rimanevano ancora molti – forse troppi – nodi da sciogliere, ma Boris Johnson e Ursula von der Leyen avevano dato il mandato di continuare a negoziare e sono più volte intervenuti di persona alla ricerca di un compromesso. Mentre il Regno Unito si trova ad affrontare le conseguenze della variante del Covid-19, il primo ministro britannico ha fatto concessioni che hanno finalmente sbloccato l’accordo.
Come si è giunti all’accordo e quali passi restano da compiere? Che soluzioni si sono trovate sui tre principali nodi (pesca, concorrenza leale e governance)? E quali le conseguenze per l’Ue e l’Italia in particolare?
Riavvicinamento tra Bruxelles e Londra?
La posizione di Downing Street è sempre stata quella di arrivare a un buon accordo su Brexit, perché un accordo ‘cattivo’ sarebbe stato peggio del no deal. Un accordo buono, secondo gli inglesi, si traduceva sostanzialmente nel take back control che entusiasma i Brexiteers dai tempi del referendum: Londra intende avere le mani libere su immigrazione, aiuti di Stato, mercato interno e accordi commerciali con il resto del mondo. Su queste premesse era stata scritta ad ottobre la proposta di Internal Market Bill, che arrivava addirittura a violare in parte l’Accordo di Recesso, un vero e proprio trattato internazionale con l’Ue che lo stesso Johnson aveva firmato solo pochi mesi prima. La forte reazione europea aveva portato Jonhson a più miti consigli, ma lasciando comunque al capo negoziatore britannico David Frost il mandato di non retrocedere sul level playing field e sulll’accesso dei pescherecci europei nelle acque britanniche.
Eppure a Londra, e non solo, montavano le preoccupazione per una hard Brexit che nelle parole del Cancelliere dello Scacchiere Rishi Sunak avrebbe avuto sull’economia britannica un impatto economico addirittura peggiore della pandemia. Il tutto peraltro mentre il premier Johnson continuava a raccogliere critiche nel paese per la gestione della pandemia e si trovava costretto annunciare nuove misure restrittive legate alla variante del Covid-19 a pochi giorni dal Natale. E’ stato probabilmente troppo anche per Johnson che alla fine ha fatto concessioni che vanno incontro alle richieste di Bruxelles.
D’altra parte la Commissione europea non ha mai negato l’importanza di un accordo, anche se non a tutti i costi. Importanza legata al fatto che gli interessi comuni tra Ue e Regno Unito vanno peraltro ben al di là dell’ambito strettamente commerciale: riguardano infatti anche la sicurezza e la collaborazione nel campo dell’intelligence, la lotta al cambiamento climatico, la ricerca (basti pensare a quella sui vaccini per il COVID-19). Il no deal avrebbe segnato negativamente i futuri rapporti anche in queste aree. Uno scenario che era meglio evitare nell’interesse di tutti.
Cosa prevede l’accordo?
I tre punti su cui discutevano UE e UK erano i diritti di pesca, le regole sugli aiuti di stato e la governance dell’accordo. Prima di entrare nei dettagli, va ricordato però che dall’1 gennaio il Regno Unito lascerà comunque il Mercato Unico e l’unione doganale dell’Ue. In concreto questo vuol dire che subentreranno, ad esempio, restrizioni alla mobilità delle persone con un sistema di visti già annunciato da tempo da Londra (si veda più sotto). Il governo inglese avrà inoltre mano libera nell’applicare accordi commerciali con paesi extra-Ue, già finalizzati con 29 paesi e regioni del mondo delle 40 che erano già parte di accordi con l’Ue, ma alle stesse condizioni di prima e non migliorativi per Londra, e con il Giappone, con cui l’UE non ha invece un accordo commerciale.
UE e UK stavano quindi negoziando prevalentemente un accordo di libero scambio che permettesse alle merci inglesi di entrare nel mercato unico europeo senza alcun dazio e vincoli quantitativi (mentre alcuni adempimenti doganali entreranno in vigore con possibili code alle dogane), e viceversa alle merci provenienti da paesi UE e dirette verso Londra. Quasi del tutto escluso è il settore dei servizi (inclusi quelli finanziari), malgrado questi siano di significativa importanza per il Regno Unito. Ma nelle 2.000 pagine circa dell’accordo c’è spazio anche per la collaborazione in altri campi (come ad esempio la difesa e l’intelligence) che peraltro potrà essere estesa e approfondita in futuro.
Per rendere concreto l’accordo manca ora il passaggio al Parlamento inglese, che non è necessariamente una mera formalità e dovrebbe avvenire entro fine anno. Il Parlamento europeo ha invece deciso di prendersi più tempo per valutare bene l’accordo e quindi si pronuncerà a gennaio, anche se nel frattempo l’accordo potrà entrare temporaneamente in vigore per evitare settimane di caos alla frontiera.
Andando invece ai punti chiave dell’accordo, ha dell’incredibile che fino alla fine si sia negoziato su quote da applicare a specifiche specie di pesci. La pesca nelle acque britanniche conta per poco più di 600 milioni di euro per l’Ue, risultando quindi nell’ordine dello zero virgola del Pil. Ma il tema era stato fortemente politicizzato dai Brexiteers e dallo stesso Johnson, che più volte aveva indicato nella presenza dei pescherecci europei nella acque britanniche un affronto alla sovranità del proprio paese. Pazienza se in ogni caso la Gran Bretagna non potrebbe consumare tutto il pesce pescato (e dovrebbe comunque ‘esportarlo’ anche nell’Ue) e non possieda capacità di lavorazione e stoccaggio adeguate. Ma alla fine appunto l’accordo c’è stato: per i prossimi cinque anni e mezzo i pescherecci europei potranno continuare a pescare nelle acque britanniche anche se via via la quantità di pescato verrà ridotta.
Ben più rilevanti sono invece gli altri punti. Il primo riguarda il level playing field. In pratica Bruxelles teme che in futuro Londra possa promuovere delle norme (ad esempio in campo fito-sanitario o ambientale) meno stringenti rispetto a quelle che l’Ue impone alle proprie aziende, con il risultato di una concorrenza sleale da parte di Londra. Cosa che potrebbe avvenire anche nel caso in cui il Regno Unito riconoscesse alle proprie imprese degli aiuti di stato più generosi rispetto a quelli dei paesi europei (che devono sottostare alle regole comunitarie) distorcendo quindi ancora una volta la concorrenza. L’accordo prevede che Londra possa sì discostarsi dalla regolamentazione europea, ma non fino al punto di arrecare un danno alla libera e leale concorrenza.
Qui entra in gioco la governance dell’accordo, ovvero le procedure che vengono avviate se una delle due parti ritiene che l’altra abbia assunto un comportamento sleale o si rifiuti di rispettare gli accordi, come quello sulla pesca. Tra questi ultimi anche quelli già previsti nell’accordo di recesso per i quali il Regno Unito dovrà provvedere a effettuare controlli doganali nel mare d’Irlanda, di fatto istituendo una (per quanto piccola) barriera doganale tra l’isola di Gran Bretagna e l’Irlanda del Nord, al fine di garantire il rispetto degli accordi del Venerdì santo, che vietano l’istituzione di un confine fisico sull’isola d’Irlanda, tra Repubblica d’Irlanda e Irlanda del Nord. Sul nodo cruciale della governance, Bruxelles avrebbe ottenuto un meccanismo di ‘arbitrato’ particolarmente snello e veloce nel caso in cui sorgano delle divergenze future sull’accordo e la possibilità di applicare delle ‘sanzioni’ (ad esempio sotto forma di dazi) qualora il Regno Unito si discosti da una leale concorrenza o non rispetti gli accordi (e ovviamente viceversa).
E ora che succede? Cosa cambia per l’Italia?
L’accordo evita di mettere a rischio gli scambi tra UK e i 27 paesi Ue. Nel 2019 il Regno Unito ha infatti esportato il 43% dei propri beni verso l’Unione europea, ed era per questo di gran lunga più vulnerabile al mancato accordo commerciale rispetto a ciascun singolo paese europeo. Con l’hard Brexit, sulle merci britanniche dirette verso l’Europa sarebbero tornati ad essere applicati i dazi previsti dall’Organizzazione mondiale del commercio. Certo, il dazio medio europeo sarebbe stato comunque inferiore al 3% per i tutti i beni non agricoli. Tuttavia, per alcuni prodotti i dazi sarebbero stati nettamente superiori (del 10% sugli autoveicoli, e fino al 35% sui prodotti caseari).
Come detto, i singoli Paesi europei erano notevolmente meno esposti, dal momento che l’anno scorso hanno esportato in media solo il 6,5% delle proprie merci verso Londra. Ma alcuni paesi erano più preoccupati di altri, perché la quota delle loro esportazioni diretta verso il Regno Unito è nettamente superiore (il 13% nel caso dell’Irlanda, o il 10% dei Paesi Bassi). Rispetto agli altri grandi Paesi Ue, l’Italia sarebbe stata meno esposta al rischio hard Brexit: l’anno scorso solo poco più del 5% delle nostre esportazioni era diretto verso il Regno Unito.
Tuttavia, era proprio Roma ad avere il terzo maggiore surplus commerciale europeo nei confronti di Londra (12 miliardi di euro l’anno). Un surplus peraltro in aumento negli ultimi anni, e che oggi rende il Regno Unito il quinto importatore di beni italiani. Tra i settori di punta del nostro export, i più esposti a nuovi dazi sarebbero stati la meccanica strumentale, il tessile, il chimico e l’agroalimentare. Oltre ai dazi, va inoltre ricordato che sarebbe entrata in vigore tutta una serie di adempimenti e controlli doganali (alcuni entreranno comunque in vigore anche con l’accordo).
Per i cittadini europei cambiano invece in ogni caso le regole per potersi recare in Regno Unito, in particolare per chi vuole spostarsi per periodi di tempo più lunghi, per esempio per lavoro. In questo caso le nuove norme, che entrano in vigore a causa di Brexit e non di questo accordo sui rapporti post-Brexit, prevedono che anche i cittadini dei 27 paesi Ue (assieme a tutti i cittadini del resto del mondo) facciano una richiesta di visto che verrà approvata sulla base di un sistema a punti rigoroso: quasi il 40% dei punti dipende dall’avere un’offerta di lavoro da un datore britannico, e un altro 18% dal fatto che lo stipendio superi le 25.600 sterline l’anno. Il tutto peraltro a un costo piuttosto elevato: tra i 1.300 e i 2.300 euro per domanda.
Il commento
Di Antonio Villafranca, ISPI Director of Studies and Co-Head, Europe and Global Governance Centre
Aver raggiunto un accordo, seppur in extremis, è un risultato positivo. Magari non si tratta del miglior accordo possibile (quale lo sarebbe per tutti?), ma quanto meno non aggiunge altra incertezza in un mondo che ne ha già troppa. Johnson ha cercato di salvare (in parte) la faccia impuntandosi sulla pesca, ma l’Ue giustamente non ha ceduto sui principi e regole del suo mercato unico. Ci sarà tempo per criticare questo o quel punto dell’accordo – Westminster e Parlamento Ue ne avranno l’occasione a breve – ma al momento l’accordo sembra proprio un regalo di Natale.
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A cura della redazione di ISPI Online Publications (Responsabile Daily Focus: Alessia De Luca, ISPI Advisor for Online Publications)