Da quando i Brexiteers hanno vinto il referendum nel giugno del 2016, l’attesa era per una estenuante negoziazione tra Londra e Bruxelles senza esclusione di colpi. Ma non è andata esattamente così: la battaglia più cruenta si sarebbe infatti combattuta a Londra. Una battaglia talmente dura che, al confronto, la negoziazione con Bruxelles è sembrata poco più di un esercizio diplomatico. La situazione è però cambiata con il Consiglio informale di Salisburgo dello scorso 20-21 settembre. I leader europei sembrano infatti aver deciso che non c’è più tempo per gli scontri all’arma bianca e, mostrando una compattezza non scontata, hanno accerchiato e messo all’angolo la premier britannica, che a casa propria continua a fronteggiare il “fuoco amico” del suo stesso partito.
Eppure all’inizio delle negoziazioni era Theresa May a mostrare i muscoli ripetendo per mesi il mantra “no deal is better than a bad deal”. A cambiare le carte in tavola sarebbe stata anzitutto la sciagurata decisione di andare a elezioni anticipate un anno dopo il referendum. Elezioni in cui i Tories a guida May riescono a far peggio dell’ex premier Cameron, tanto da essere costretti a formare un governo di coalizione con il Partito Unionista Democratico (DUP) dell’Irlanda del Nord. Il risultato è stato inevitabile: una May indebolita su cui i colleghi europei cercano comunque di non infierire. E in effetti a dicembre dello scorso anno viene siglato un primo importante accordo tra Londra e Bruxelles sui termini del divorzio. Per porre fine ai 45 anni di matrimonio – dal lontano 1973 – e far fronte agli impegni pregressi, Londra verserà alle casse di Bruxelles una somma stimata nell’ordine dei 40-50 miliardi di euro, da pagare però a rate, a quanto pare addirittura fino al 2064 (anche se il grosso verrà pagato entro il 2025).
Nella bozza di Withdrawal Agreement dello scorso marzo, viene anche identificato un periodo di transizione di due anni da Brexit – fino dunque al 2020 – in cui però Londra sarà chiamata a rispettare i vincoli di un qualsiasi paese membro, pur non essendolo più. In pratica contribuirà al bilancio Ue e rispetterà la giurisdizione e la regolamentazione europea. Si tratta a ben vedere di una temporanea sospensione della piena sovranità britannica, perché Londra accetterà le regole e gli obblighi europei pur non avendo contribuito a crearli, visto che non disporrà del diritto di voto negli organismi europei. Ma è il prezzo che Theresa May è disposta a pagare per acquistare tempo e pianificare per bene i rapporti che legheranno in futuro il suo paese all’Ue.
Inoltre sul delicatissimo tema dei circa 3,8 milioni di cittadini europei attualmente residenti in Gran Bretagna – e sul milione abbondante di britannici residenti nei paesi Ue – viene trovato un accordo che va nella giusta direzione della tutela dei loro diritti, anche oltre il 2020.
Un tema rimane però sospeso: la questione dell’Irlanda del Nord. Per affrontarlo è infatti necessario non solo definire i termini del divorzio ma anticipare anche quello si sarebbe dovuto chiarire durante il periodo di transizione, ovvero i contorni del futuro rapporto tra Londra e Bruxelles. Una mission impossible accantonata, solo temporaneamente, grazie ad alcuni escamotage diplomatici. Entrambe le parti si limitano infatti a dichiarare solennemente che verranno salvaguardati gli accordi del Venerdì santo che 20 anni fa hanno messo fine a decenni di sanguinosi scontri tra Belfast e Londra. Gli accordi impongono di non creare alcuna frontiera o barriera fisica tra l’Irlanda del Nord, formalmente territorio britannico, e la Repubblica d’Irlanda.
Ma dato che la Gran Bretagna lascerà l’Ue, mentre Dublino ne rimarrà paese membro, le merci che entreranno nell’Irlanda del Nord dal resto della Gran Bretagna dovrebbero essere soggette a controllo per verificare il rispetto delle regolamentazioni Ue, se non addirittura per applicare eventuali dazi, nel caso di una “hard Brexit”. In pratica una barriera fisica tra l’Irlanda del Nord e il resto della Gran Bretagna. È questo il backstop che il negoziatore europeo, Michel Barnier, impone a Londra. Ma questo rappresenta anche una red line invalicabile non solo per il DUP che sostiene il Governo May, ma anche per i Conservatori. L’accordo trovato in extremis stabilisce che il backstop costituisce una extrema ratio da attivare se, e solo se, una soluzione alternativa non verrà trovata (entro la fine del periodo di transizione). Il pallino passa dunque alla May costretta a trovare quest’altra soluzione e a tratteggiarne con chiarezza i contorni. È proprio quello che la May prova a fare con il Piano Chequers presentato lo scorso 12 luglio.
In estrema sintesi la premier britannica sostiene che non ci sarà bisogno di alcuna barriera fisica tra l’Irlanda del Nord e il resto del Regno Unito perché punta a un grande accordo di libero scambio sulle merci (inclusa l’agricoltura) basato su un “common rulebook” che garantisca un “frictionless trade” tra Londra e Bruxelles. Qualcosa che ricordi da vicino il recente accordo tra l’Ue e il Canada, ma ancora più rigido. Il “common rulebook” si tradurrebbe in una sostanziale equivalenza in termini di regolamentazione tra Londra e Bruxelles. Equivalenza che riguarderà anche le merci che dal resto del mondo entreranno nel Regno Unito e che verranno poi riesportate all’interno del Mercato Unico europeo, cui oggi vengono destinate il 48% delle esportazioni britanniche. Ma questa equivalenza regolamentare e tariffaria non si applicherà necessariamente a quelle merci che saranno poi circolate solo all’interno del Regno Unito o al di fuori dell’Ue (nodo attorno il quale si sviluppa il Facilitated Customs Arrangement del Piano Chequers). Un modo per lasciare mano libera a Londra nello stringere autonomamente accordi commerciali con il resto del mondo già durante il periodo di transizione (ma potenzialmente operativi solo da gennaio 2021). Precisazioni che non sono però bastate al partito della May, con diversi esponenti che hanno gridato al tradimento dello spirito di Brexit e all’assoggettamento all’Ue.
Le conseguenze per la May sono state catastrofiche: si dimettono immediatamente dai loro incarichi di governo Boris Johnson, Steve Baker (sottosegretario agli esteri) e lo stesso ministro per la Brexit David Davis. Dimissioni che rendono quanto mai evidenti le lotte che ormai da mesi si consumavano all’interno dei Tories che non hanno mai perdonato alla May la sconfitta elettorale e una gestione della questione Brexit, a loro dire, poco collegiale. Ma c’è di più. Anche dai laburisti sono infatti fioccate le critiche al Piano Chequers al punto da far apparire credibile il rischio che l’eventuale accordo finale con l’Ue – basato sul Piano stesso – non venga poi ratificato dal Parlamento di Westmister. Molti conservatori, a partire da Boris Johnson, non vogliono quindi essere accomunati alla May – e pensano di prendere il suo posto – nel caso in cui Brexit si trasformi in una disfatta. Tanto più perché sembrano andare a rilento i preparativi legati a un’eventuale hard Brexit che dal prossimo aprile renderebbe Londra un semplice paese terzo per l’Ue. Un paese a cui quindi si applicherebbero le regole – e i dazi – definiti nell’ambito dell’Organizzazione Mondiale del Commercio.
Di fronte al cataclisma che ha colpito il governo britannico e con una May più debole che mai, i leader politici europei che precedentemente avevano preferito non affondare il colpo, nella consapevolezza che una hard Brexit non conviene a nessuno, sembrano ora cambiare strategia. Obiettano alla May di aver presentato un piano che le garantisca un accesso à la carte al Mercato Unico, ovvero solo per il commercio di beni, che lascia fuori il cruciale comparto dei servizi (a partire da quelli finanziari) per il quale si teme una futura concorrenza al ribasso da parte delle autorità britanniche rispetto alla regolamentazione europea.
Si tratta in effetti di una possibile tentazione per Londra che sa di dover perdere il “passaporto finanziario” e già oggi si trova a fronteggiare la concorrenza di altre piazze finanziarie europee, come nel caso del recente piano di Deutsche Bank per il trasferimento di assets e capitali da Londra a Francoforte. Inoltre Londra nella pratica avrebbe libero accesso al Mercato Unico ma senza contribuire al bilancio Ue (come invece fa ad esempio la Norvegia) e rigettando la libertà di movimento delle persone, che invece i leader Ue ritengono un caposaldo del Mercato Unico stesso.
I nodi sono arrivati al pettine al Consiglio straordinario di Salisburgo, al quale Theresa May ha partecipato nella errata convinzione di trovare una sponda nei colleghi europei sul Piano Chequers, soprattutto in vista del Congresso dei Tories di inizio ottobre. Si è invece trovata di fronte un gruppo raramente così compatto – malgrado qualche tono più conciliante da parte di Polonia e Ungheria – che ha messo in discussione il Piano stesso e chiarito alla May che vi deve metter mano entro il Consiglio europeo del 18 ottobre. Solo se lei sarà in grado di dimostrare di aver fatto concreti passi avanti nella direzione voluta dall’Ue si potrà pensare a un Consiglio straordinario di novembre che dovrebbe chiudere definitivamente i negoziati. Per capire il clima di Salisburgo basti la dichiarazione del Presidente Macron secondo cui “Brexit dimostra una cosa: non è facile uscire dall’Ue. Non è senza costi. E non è senza conseguenze”.
Parole che evidentemente non avevano come unico destinatario l’inquilina di Downing Street. Ma non manca anche chi pensa che l’accerchiamento operato ai danni di Theresa May a Salisburgo faccia invece parte di una velata strategia europea che mirerebbe a favorirla in vista del Congresso dei Tories. La May potrebbe infatti difendersi dagli attacchi del suo stesso partito obiettando che con il Piano Chequers non c’è alcun asservimento all’Ue, date le aspre critiche ricevute dai leader europei. E che quindi non è possibile ottenere di più rispetto al Piano, che va sostenuto nel voto di Westmister.
Difficile prevedere cosa succederà da qui al prossimo marzo e se lo spettro dell’hard Brexit sarà evitato. Appare evidente che l’esito dipende più da quello che succederà a Londra che da quello che succederà a Bruxelles, tanto più che in Gran Bretagna affiorano addirittura richieste per un nuovo referendum.
L’ora della verità per la May è arrivata. Ma, prima che con l’Europa, con il suo partito e il suo paese.