domenica, 24 Novembre 2024

IL FATTORE “MOMENTO GIUSTO”

NICLA PANCIERA (D. la Repubblica)

Indovinare il momento giusto per compiere un’azione può voler dire stabilirne l’esito. A volte decidiamo quando agire basandoci sull’intuizione del momento, in altri casi proviamo a ragionarci su. Per quanto la vita sia un flusso continuo di scelte – quando cambiare lavoro, dare una cattiva notizia o semplicemente andare a correre al parco – in pochi sanno che la tempistica è un’arte. E una scienza. Ne è convinto Daniel Pink, autore di When: the scientific secrets of the perfect timing, titolo appena uscito negli Usa, nel quale il prolifico autore di bestseller passa in rassegna i risultati di discipline diverse, dalla cronobiologia alla psicologia fino all’economia, senza approfondirne nessuna, per spiegare l’importanza di tenere in considerazione la quarta dimensione, quella temporale, spesso sottovalutata. Perché, scrive Pink, “gli scaffali delle librerie sono pieni di pubblicazioni su come realizzare una certa cosa. Ma nessuno spiega mai quando farla”.

Come tutti i processi fisiologici, che si ripetono regolarmente nelle 24 ore, anche le capacità cognitive variano nel corso della giornata. Le ricadute sulle nostre prestazioni sono evidenti e le fluttuazioni sono più ampie di quanto gli scienziati non avessero immaginato agli inizi. È passato oltre un secolo, infatti, da una delle prime misurazioni oggettive, eseguita dallo psicologo tedesco Hermann Ebbinghaus, che dimostrò come ricordare elenchi di sillabe senza senso sia più facile al mattino che alla sera.Oggi si pensa che «la variazione tra il picco più alto e quello più basso nelle prestazioni sia l’equivalente dell’effetto sulle nostre capacità cognitive di un bicchiere di alcol», per dirla con Russell Foster, direttore dell’istituto Sleep and Circadian Neuroscience dell’Università di Oxford. Certo, il momento migliore per un certo compito dipende dalla sua natura.

Uno studio, apparso sulla rivista PNAS e condotto dalla Harvard Business School su oltre 2mila studenti danesi, ha mostrato la forte correlazione tra l’orario dei test scolastici e i risultati che, con il passare delle ore, peggiorano inesorabilmente. «La mattina il sistema cognitivo funziona meglio nei compiti di memoria di lavoro, di pomeriggio entra in gioco la memoria a lungo termine e, infatti, siamo facilitati nell’apprendimento», spiega Vincenzo Natale, direttore del dipartimento di Psicologia dell’Università di Bologna. «Le informazioni acquisite di pomeriggio sono ricordate meglio». «Studi recenti mostrano gli effetti del passare delle ore, i cosiddetti time-of-the-day effects, su vari processi cognitivi: l’attenzione, le capacità decisionali, addirittura le scelte morali.

C’è una generale, progressiva riduzione delle nostre capacità di controllo cognitivo e di auto-controllo», spiega il neuroeconomista Giorgio Coricelli dell’Università of Southern California a Los Angeles, responsabile di un gruppo di ricerca presso l’Università di Trento. Tale inibizione delle reti neurali frontali dell’attenzione esecutiva consente l’attivazione delle aree cerebrali di default (dette default mode network), attive quando la mente è libera di vagare e coinvolte nel pensiero creativo. L’intuizione geniale è più probabile a pomeriggio inoltrato e, paradossalmente, in condizioni di stanchezza mentale. Da cosa dipendono queste differenze? «Dall’interazione, detta effetto di sincronia (synchrony effect), tra il ciclo circadiano, gli stati fisiologici come l’eccitazione (arousal) e “l’energia mentale” che variano durante la giornata, e i processi omeostatici, ovvero la tendenza naturale a mantenere stabili, autoregolandoli, i parametri interni, come la temperatura corporea», risponde Coricelli. Giornata facendo, la propensione al sonno aumenta, l’energia mentale diminuisce per effetto del sistema omeostatico ma, contemporaneamente, l’arousal cresce nel giorno per ridiscendere la sera.

Tuttavia, questi effetti dipendono anche dalla preferenza individuale circadiana, il noto cronotipo, che fa di noi allodole mattiniere o gufi amanti della notte. Nella popolazione la distribuzione dei profili è normale: 20% di gufi puri, 10% di allodole pure e un picco di intermedi. La conoscenza della propria “identità circadiana” è accessibile, basta rispondere a un questionario scientificamente validato, il MEQ (dall’inglese morningness-eveningness questionnaire). Le preferenze individuali «si sviluppano con la crescita, cambiano con l’età, possono essere modificate con l’alimentazione, l’esposizione alla luce e altri sincronizzatori sociali», spiega Vincenzo Natale. «Si pensi all’esigenza di essere in piedi alle 7 per andare a scuola o di rimanere svegli la notte per chi lavora su turni».

«Per quanto riguarda le decisioni morali, le allodole mentono e tradiscono di più di sera, mentre i gufi riducono gli standard morali all’inizio della giornata», rivela Coricelli. In genere, le allodole hanno una maggior propensione al rischio dei gufi e mettono in atto comportamenti rischiosi di sera: «Conoscendoci, dovremmo capire a che ora è meglio prendere decisioni importanti». Coricelli spiega che tutto ciò è noto agli economisti, i quali sanno che «scelte in condizioni di rischio possono essere condizionate dalla nostra capacità di valutare correttamente la rischiosità delle opzioni e che potremmo sottovalutare le conseguenze delle nostre azioni.

Una riduzione delle capacità cognitive potrebbe condizionarci nelle relazioni interpersonali e favorire il conflitto rispetto alla cooperazione. Evitiamo le scelte importanti in momenti sbagliati per la nostra biologia interna: rispettiamo i tempi delle nostre cellule». L’appello alla prudenza viene anche da Natale, che invita a «non trarre dai cronotipi regole comportamentali valide per ogni individuo ». Difficile tradurre il biologico in cognitivo: «Con l’aumentare della difficoltà del compito crescono le strategie messe in atto dal singolo: arduo distinguere quanto dipende dal tempo e quanto da fattori individuali e contingenti».
Un extra di dopamina

La rotazione della Terra su se stessa e la rivoluzione intorno al Sole hanno scandito il ritmo alla vita, che si è evoluta adattandosi a queste fasi che continuano ancora oggi a darci il tempo. Le funzioni fisiologiche, sensoriali, percettive e cognitive dell’uomo e degli altri animali sono governate dalla dimensione temporale. A occuparsene è una disciplina antica ma di recente rinascita, la cronobiologia, che studia il ticchettio degli orologi interni e di quello principale che tutti li governa, il grande direttore d’orchestra nel nucleo soprachiasmatico, appena 20mila neuroni nell’ipotalamo. Per garantire il perfetto funzionamento degli organismi, migliaia di geni devono essere accesi e spenti; enzimi, ormoni, proteine e altri composti devono essere prodotti, metabolizzati e assorbiti all’interno di precisi intervalli temporali.

Senza un orologio che scandisca, regnerebbe il caos. «Il vantaggio evolutivo di un simile sistema consiste nell’anticipare le variazioni nelle condizioni dell’ambiente esterno che sono ricorrenti, e quindi prevedibili, adattandosi a esse», spiega Roberto Manfredini, direttore del Dipartimento di scienze mediche dell’Università di Ferrara e massimo esperto di cronobiologia. «Le alterazioni del funzionamento fisiologico programmato, come le prolungate e continue rotture e disallineamenti dei ritmi circadiani, hanno conseguenze che possono sfociare nella patologia. L’esempio classico è il lavoro su turni, che comporta un costo di adattamento del sistema circadiano ancora difficile da quantificare ».

Per anni si è ritenuto che le periodiche oscillazioni delle varie funzioni fisiologiche fossero solo una risposta alle variazioni quotidiane dell’ambiente fisico, come l’alternarsi del dì e della notte. Non è così. Nel 1700, l’astronomo d’Ortous de Mairan scoprì che le foglioline della mimosa pudica si aprono e si chiudono ciclicamente, anche quando la pianta è tenuta al buio. Lo stesso accade all’uomo, come hanno visto gli studi anni ’80 su soggetti in isolamento nelle grotte. La lunga permanenza a condizioni ambientali costanti ha rivelato che «il nostro organismo possiede un ritmo endogeno, il free running, che funziona senza sincronizzatori esterni, come la luce e il buio, e che si assesta su una giornata di 25 ore, un po’ superiore a quella astronomica di 24 ore». Questo spiega perché per il nostro fisico è meglio spostare le lancette indietro, come quando viaggiamo verso ovest, e non l’opposto: stiamo allungando le giornate, assecondando un elemento che è già nel nostro timer interno.

Ma gli orologi biologici interni si sincronizzano (e si possono desincronizzare) anche sulla base dell’alimentazione, della vita sociale, dell’attività fisica, della luce. «L’illuminazione elettrica nelle case ha provocato uno sconvolgimento che dura da due secoli», conferma Manfredini. «L’esposizione alla luce nel corso della notte altera la biosintesi della melatonina, ormone fondamentale nel funzionamento dei ritmi circadiani». Più in generale, la luce è cruciale per il nostro adattamento all’ambiente e ai suoi ritmi giornalieri e stagionali. E influisce sul tono dell’umore. A fare da interfaccia tra i livelli di luce esterna e il funzionamento del nostro organismo, c’è il nucleo soprachiasmatico, il principale orologio circadiano del cervello dei mammiferi. Esso, adattando la sua attività alle variazioni di illuminazione, muove l’attivazione delle altre aree del cervello per le quali funge da master clock.

I lavori di Davide Dulcis dell’Università della California a San Diego hanno mostrato che il livello della nostra esposizione quotidiana, il photoperiod, modula la produzione di un potente neurotrasmettitore, la dopamina, in grado di inibire le cellule che regolano l’ormone dello stress nell’ipotalamo. «Una pausa sotto il sole», spiega Dulcis, che studia la luce come ansiolitico e antidepressivo, «avrebbe quindi un effetto acuto, inducendo un fenomeno di neuroplasticità nel cervello, ossia la produzione del trasmettitore del buonumore».

La svolta nella comprensione di quest’ingranaggio dalla precisione svizzera è avvenuta con l’avanzare delle conoscenze di genetica. Tanto che il Premio Nobel per la medicina del 2017 è stato assegnato a Jeffrey C. Hall, Michael Rosbash e Michael W. Young per i loro studi sui meccanismi molecolari dei ritmi circadiani e sui geni che li governano. Non solo i nostri ritmi dipendono da alcuni “geni del tempo”, ma oggi sappiamo che l’espressione di moltissimi geni è circadiano-dipendente. È apparso su Science il più completo studio, condotto sui primati, che collega i ritmi circadiani e la trascrizione genica. Secondo questo primo atlante dell’espressione genica, opera di Satchidananda Panda del Salk Institute for Biological Studies a La Jolla in California, 8 geni su 10 seguono ritmi circadiani in molti tessuti e organi del nostro corpo. Agendo sui “geni del tempo” negli animali, gli scienziati hanno bloccato i loro ritmi circadiani.

Conseguenze? Elevata mortalità cardiovascolare e rapido invecchiamento. Perché? «Non lo sappiamo veramente. Molti fattori vi contribuiscono», spiega Katja Lamia del dipartimento di fisiologia chimica del The Scripps Research Institute a La Jolla. «Per esempio, l’orologio circadiano regola sia la produzione che la risposta agli ormoni dello stress, come il cortisolo, che può alterare l’invecchiamento e la salute cardiovascolare. Inoltre, la pressione sanguigna ha un forte ritmo circadiano e le persone con inadeguato calo pressorio notturno (i non-dippers) hanno maggiore mortalità associata all’ipertensione»
Tutto ha un ordine

Non è tutto cronobiologia. Perché anche la tempistica conta moltissimo, nelle strategie comportamentali e nel successo delle nostre imprese. Bisogna quindi saper sfruttare il tempo a proprio vantaggio.
Chi ben comincia è a metà dell’opera. Abbiamo tutti la sensazione che un buon inizio sia molto importante. Ora la scienza dimostra che lo è anche di più. Poter nascere in un paese ricco, in pieno boom economico, per esempio, spiega bene il senso del detto “Chi ben comincia è a metà dell’opera”. Ma come rimediare a passi falsi iniziali che ci condizionano? La buona notizia è che ognuno di noi ha a disposizione tanti nuovi inizi che possono diventare punti di riferimento temporali importanti. Saperli sfruttare aiuta ad avere una visione globale e a “pensare lentamente”, termine con cui il premio Nobel per l’economia Daniel Kahneman indicava i processi decisionali radicati nel ragionamento e guidati da attenta deliberazione. I candidati migliori? Sono l’inizio di un nuovo anno, il proprio compleanno, una data speciale o il primo giorno del mese o della settimana. Scrive Daniel Pink nel suo When: “Una campagna in favore di un’alimentazione sana avrebbe più successo se partisse dal primo giorno della settimana: come dire, meglio il Lunedì senza carne che il Giovedì vegetariano”.

La produttività dell’ultimo minuto. A volte le false partenze ci condizionano più di quanto vorremmo. Per rinnovare lo slancio e l’impulso motivazionale anche a metà dell’opera, i singoli individui e intere aziende possono fissare obiettivi intermedi, come sanno bene i maratoneti. Una mossa ulteriore per guadagnare in convinzione e impegno è quella di rendere pubblici questi traguardi. Infine, a metà di un percorso potremmo venire allertati da una sirena mentale interna, che ci ricorda che il tempo sta per scadere, provocando una transizione nelle nostre strategie e facendoci vincenti. L’ordine conta. Quando dobbiamo dare un esame universitario o superare una selezione lavorativa, è meglio essere i primi? Già, perché anche se la vita non è sempre una competizione, a volte lo è addirittura in modo seriale. In questo caso, brillare non basta, bisogna fare meglio di chi ci ha preceduto e di chi ci seguirà. E, così, spiega Pink, meglio essere i primi quando i competitori sono pochi e si può sfruttare la tendenza delle persone a ricordare il primo elemento di una serie, il cosiddetto primacy effect.

Ma anche quando gli avversari sono forti, per cui gli esaminatori potrebbero prendere decisioni sulla base del narrow bracketing, l’errore cognitivo “delle parentesi anguste” che li porta a valutare i candidati successivi più severamente, confrontandoli con quelli, forti, già visti. Infine, anche in presenza di elenchi o liste: chi figura al primo posto è quasi sempre il vincente.
Vai avanti tu. In altri casi è conveniente attendere. Ciò è vero quando gli avversari sono numerosi ed essere gli ultimi conferisce un vantaggio di visibilità. Ma anche quando gli altri sono deboli e la competizione è bassa: infatti, in genere, man mano che i candidati si susseguono i valutatori abbandonano lo standard di eccellenza iniziale in favore di un’idea più aderente alla realtà. Conviene aspettare anche in contesti di incertezza, per capire meglio le dinamiche in gioco.
La cronobiologia ci cambierà la vita

Tra i primi a interessarsi alle applicazioni pratiche della cronobiologia furono i ricercatori della Nasa. Dallo spazio si è presto passati allo sport, dove «ormai ogni team ha il suo cronobiologo, che segue gli atleti almeno un anno prima delle competizioni e personalizza le tabelle degli allenamenti», ci racconta Roberto Manfredini, cronobiologo ufficiale degli atleti italiani alle Olimpiadi invernali del 1998, a Nagano, Giappone. Dove tali conoscenze non sono ancora sufficientemente routinarie è nella clinica. Eppure i dati epidemiologici evidenziano chiare regolarità, come la maggior frequenza di infarti, ictus, dissezioni dell’aorta o embolie polmonari al mattino quando «aumentano la temperatura corporea, la pressione arteriosa e la frequenza cardiaca; le coronarie sono più strette dell’8% rispetto alla sera e si verificano una serie di condizioni, perfettamente fisiologiche, che tuttavia», spiega Manfredini, «in soggetti vulnerabili possono spiegare il perché del prevalente esordio mattutino di queste patologie». Anche le funzioni immunitarie variano nel corso della giornata, e nei momenti di minor attivazione è maggiore il rischio di contrarre infezioni.

Inoltre, uno studio pubblicato su Science mostra che anche il microbioma, la popolazione di batteri che vive nel nostro intestino, è in grado di influenzare l’orologio circadiano dell’apparato digerente, condizionando la quantità di grassi assorbita e immagazzinata nel corpo. Infine, la diversa capacità di recupero dei tessuti fa sì che, come spiega la rivista Lancet, gli interventi cardiochirurgici eseguiti nel pomeriggio vadano incontro a minori complicanze, rispetto a quelli avvenuti di mattina. Dove, invece, si sono fatti molti passi avanti è nella somministrazione delle terapie. «Dare una compressa o eseguire un trattamento come la radioterapia in concomitanza di una certa fase del ciclo cellulare, magari quando le cellule sane sono meno attive e non in fase di replicazione, può dare minori effetti collaterali e maggior efficacia». Risultati promettenti esistono già per il trattamento non solo delle malattie oncologiche ma anche di quelle autoimmuni, cardiovascolari, reumatiche e respiratorie.

CODICE ETICO E LEGALE