C’è un rischio che corre soprattutto il governo, ma coinvolge pure le opposizioni e le parti sociali: quello di non essere all’altezza dei grandi concetti che si evocano: ‘Rinascita del Paese’, ‘Riforme strutturali’, ‘Patto sociale’, solo per elencare quelle più frequentemente pronunciate nei giorni della Festa della Repubblica. Si tratta di obiettivi quantomai importanti oggi, che è però necessario vengano meglio declinati e prima ancora ben delineati.
L’idea di un Patto sociale per favorire la ripresa dell’Italia dopo la pandemia, infatti, significa niente di meno che riprendere lo slancio – non dopo aver toccato il fondo di una caduta accidentale per quanto grave – ma dover invertire da un indefinito punto più basso una fase di costante declino del Paese, cominciata ben prima che il coronavirus ‘nascesse’ a Wuhan. Per intenderci: non dobbiamo solo guarire dal Covid-19 e dalle sue conseguenze, ma da tutte quelle, tante, patologie pregresse che hanno indebolito la nostra risposta ‘immunitaria’ alla malattia e che ora appesantiscono il bilancio della nostra economia e la convalescenza del sistema sociale.
Impresa che sarebbe già difficile da portare a termine in solitaria da parte di una maggioranza forte e coesa, del tutto impossibile per la fragile e variegata compagine che da quasi un anno si è assunta la responsabilità del governo. Dunque ci si può provare solo unendo le forze e con il massimo spirito collaborativo di tutti gli attori, politici e più ancora sociali, seguendo la stella polare della ricerca del bene comune per il Paese e i suoi cittadini.
Per tentare di farlo, occorre partire da due questioni fondamentali, una di principio e l’altra di metodo. La questione di principio è che le dinamiche complesse delle società moderne si possono governare meglio applicando quanto più possibile la sussidiarietà. Niente statalismo e assistenzialismo, come pure in periodi di emergenza si è costretti a fare, ma empowerment sociale, massimo rafforzamento e stimolo delle capacità della società stessa di trovare soluzioni e dare risposte ai bisogni. Con tutto ciò che questo significa, ad esempio, per la nascita di imprese, l’istruzione, l’offerta dei servizi, la valorizzazione di tutte le energie che nascono ‘dal basso’.
La questione di metodo, invece, è che nella costruzione di un vero Patto sociale tutte le idee e le ricette sono legittime se non sono la sterile rivendicazione di un qualche beneficio per la propria parte o rappresentanza d’interessi. Per intendersi, se il dibattito si riduce a: ‘Tagliate le tasse sulle imprese e poi a cascata tutto andrà bene’ non si va da nessuna parte.
Si tratterebbe solo della coazione a ripetere vecchi modelli già dimostratisi inefficaci e portatori di storture sociali. C’è da progettare il futuro possibile, non da spartirsi delle risorse, e dunque l’approccio giusto dev’essere anzitutto: ‘io, parte sociale o politica, cosa posso offrire?’, non prendere. ‘Quale impegno posso mettere in campo?’, prima ancora che ‘ecco di quali supporti ho bisogno’.
L’ascolto che il governo si è impegnato ad avviare come prima fase di questo grande piano di riforme, allora, dev’essere necessariamente a 360 gradi e ci aspettiamo che non si limiti a partiti, sindacati e imprese, ma coinvolga appieno la società in tutte le sue espressioni dal Terzo settore all’associazionismo, alla rappresentanza delle famiglie. Anche perché, se si vuole provare a districare la matassa della crisi in cui siamo impigliati, sarebbe utile cominciare da uno dei capi del filo: la questione demografica che è fondamentale e urgente da affrontare.
Guardando per un momento all’estero, ad esempio, colpisce che la Germania, già molto attenta al sostegno delle famiglie, abbia deciso di dedicare una parte significativa delle risorse di rilancio dell’economia a un ulteriore bonus una tantum di 300 euro a figlio per tutti i nuclei a prescindere dalla loro condizione. Inutile pensare a qualsiasi futuro dell’Italia, allora, se non si parte dal principale fattore di indebolimento strutturale della nostra società: il calo delle nascite, l’impoverimento delle famiglie con figli, la perdita di fiducia delle nuove generazioni, la difficoltà dei giovani a rendersi autonomi, formare nuovi nuclei, generare, in tutti i sensi, il domani.
E da lì poi tirare quello stesso filo per accorgersi che – collegati, uno dietro l’altro ci sono i temi dell’invecchiamento, del welfare, dell’istruzione, dell’occupazione, di immigrazione ed emigrazione, dei consumi, della produzione, in definitiva dello sviluppo. Di quello che non gonfia solo nominalmente il Pil, ma è generativo di un futuro sostenibile. È da quel filo che occorre tornare a tessere il domani di questo Paese.
Francesco Riccardi
[ Avvenire ]