“Se periremo, la ferocia del nemico sarà solo la causa secondaria del disastro. La prima sarà che la forza di una gigantesca nazione era diretta da occhi troppo ciechi per vedere tutti i pericoli della battaglia; e la cecità non sarà indotta da qualche incidente naturale o dalla storia ma da odio e vanagloria”.
Nel 1952, quando scrisse “The Irony of American History”, il teologo e intellettuale eclettico Reinhold Niebuhr non poteva prevedere che la sua parabola sarebbe stata così fotografica su un futuro relativamente vicino. Nemmeno pochi mesi prima del novembre 2016 qualcuno in America avrebbe avuto il coraggio di predire l’elezione di un candidato come Donald Trump che demonizza gli avversari e si crede divino come Nerone.
Scrive su Foreign Affairs l’ex premier laburista australiano Kevin Rudd: “La caotica gestione” della pandemia “da parte dell’amministrazione Trump ha lasciato nel mondo l’indelebile impressione di un paese incapace di controllare le sue crisi, figuriamoci quelle di chiunque altro”. Chi ancora crede nell’atlantismo ma anche l’avversario dei suoi valori, ascolta con orrore il leader del mondo libero invitare la gente a iniettarsi amuchina. Nemmeno l’Incredibile Bolsonaro è arrivato a tanto. La nazione che dal 1945 aveva ricostruito i paesi europei sconfitti; affrontato la Guerra fredda, vincendola; garantito la difesa nucleare degli alleati, e solo pochi anni fa guidato in Africa la battaglia contro l’ebola, ha rivelato una debolezza e un’inaffidabilità che un altro presidente faticherà a smentire.
Più di ogni altro accadimento, l’emergenza del virus ha svelato il significato di “America First”: non contate su di noi. Anzi, non fidatevi di noi. L’Europa era invasa da mascherine e missioni d’aiuto russe e cinesi. Intanto la portaerei Theodore Roosevelt, un asset strategico, era diventata focolaio di contagio; al primo allarme epidemico migliaia di americani hanno fatto la coda davanti alle armerie, elogiati da Fox News; sono stati denunciati tentativi sospetti di comprare in Germania i risultati della ricerca sul vaccino da distribuire solo agli americani. Una volta gli Stati Uniti avrebbero guidato il movimento mondiale per trovare al più presto la cura contro il Covid-19. Oggi invece si chiudono egoisticamente in se stessi, come i cinesi. Questi ultimi lo fanno con l’ambizione di governare il mondo in un futuro piuttosto vicino; Trump solo per rivincere le elezioni, il prossimo novembre.
Nessun impero è perfetto. Brutalità, brama di potere, conflitti sanguinosi sono il contrappunto della loro esistenza. Il giudizio finale lo esprime la Storia, soppesando quegli aspetti negativi con un eventuale lascito universale di civiltà: codici civili, commerci e sviluppo tecnologico, lunghi periodi di pace e stabilità, leggi che garantivano diritti ai suoi cittadini, estesi a conquistati e alleati.
Nei soli primi vent’anni di questo secolo l’America ha dilapidato la parte migliore della sua eredità imperiale. Le sue grandi emergenze del XX secolo erano state superate da guide capaci di affrontarle: Roosevelt la grande depressione e la sconfitta del nazi-fascismo, Truman ed Eisenhower la ricostruzione dell’Europa, ancora Eisenhower e Kennedy la Guerra fredda. Reagan aveva incominciato male con l’ ”Impero del male” e chiuso la presidenza arrivando assieme a Gorbaciov a un passo dall’eliminazione delle armi nucleari.
Le due grandi emergenze che – per ora – ha riservato il XXI secolo, sono state affrontate disastrosamente da presidenti inadeguati. All’aggressione dell’11 Settembre George W. Bush ha risposto con una “Guerra al terrore” che ha sfregiato il sistema legale americano, prodotto in Afghanistan il conflitto più lungo della storia degli Stati Uniti, e l’invasione dell’Iraq costruita distorcendo i fatti (la “canna fumante” di armi nucleari mai esistite), prima che sulla scena delle fake news arrivassero i troll russi. E ora Donald Trump alle prese con la pandemia.
Da Claudio a Nerone, da Marco Aurelio a Commodo. La decadenza di un impero è un cammino che si misura in decenni, quando non in secoli. Ma uomini sbagliati nel posto sbagliato ne accelerano il destino.
Decine di migliaia d’imprese americane che investono in Cina, un interscambio commerciale da 541 miliardi di dollari l’anno, i produttori americani che vendono più auto in Cina che nel loro mercato domestico. Tutto questo dovrebbe bastare per impedire il prossimo shock di questo secolo: un conflitto freddo o caldo fra l’impero dominante americano e quello crescente cinese. Usa e Urss non hanno mai avuto interessi economici così profondi in comune. Ma le ambizioni dell’imperatore cinese sembrano smodate; e la visione dell’americano inadeguata, puramente elettorale. Confidando nei sondaggi secondo i quali il 66% degli americani ha un’opinione negativa della Cina, Trump ha trasformato Pechino in un altoparlante per comizi. Accusando Joe Biden di essere “amico dei cinesi”, il presidente ha instillato nella contesa elettorale una nuova forma di maccartismo. Nel 1950 il senatore repubblicano Joseph McCarty aveva avviato un mostruoso linciaggio pubblico, trovando ovunque “spie sovietiche”: dal dipartimento di Stato a Hollywood.
Ci attendono mesi di cieco scontro interno, reso più violento dalle distorsioni della pandemia. Combattuta in carne e ossa o elettronicamente a distanza, quella di novembre non sarà una campagna edificante per ciò che resta dell’impero americano.
Ugo Tramballi
[ ISPI Istituto per gli Studi di Politica Internazionale ]