Questo intervento è uscito nel volume Bobbio ad uso di amici e nemici (I libri di Reset – Marsilio 2007).
Come pochi altri pensatori politici Norberto Bobbio ha avuto il dono di saper cogliere argomenti teorici che nel dibattito pubblicistico-politico fluttuavano confusi e appesantiti da polemiche ideologiche, riformularli, mettere in chiaro ciò che di essi si potesse, o invece non si potesse, con fondamento, dire, e, con un misto di elegante rassegnazione e di ostinata pedagogica speranza, provarsi a collocarli nelle caselle giuste della storia delle idee politiche.
Così accadde, negli anni cinquanta del Novecento, quanto da parte marxista si puntava a un rinnovo totale del vocabolario politico, e in particolare a una ridefinizione della nozione di «libertà». Nel 1952, rispondendo a una lettera di un archeologo comunista amico, Bobbio scriveva: «Vi sono tante cose che crollano e meritano di cadere per sempre. Ma permettimi di dirti che tra le cose che crollano quella che lascia il vuoto più grande e forse irreparabile è lo spirito di libertà».
A definire questo «spirito di libertà» Bobbio dedicava in quegli anni una serie di saggi volti in gran parte a recuperare, dal mucchio concettuale della critica marxistica ai regimi liberal-democratici, le possibili distinzioni tra ciò che era borghese e ciò che era semplicemente umano, ciò che era liberale e ciò che era democratico, ciò che era formale e ciò che, nella limitazione al potere statale, era materiale, ciò che nella struttura del potere si potesse estinguere e ciò che restava inevitabile.
In uno di questi esercizi di distinzione, in una saggio intitolato La libertà dei moderni comparata a quella dei posteri, Bobbio si rifaceva alla ormai classica distinzione di Benjamin Constant, tra libertà degli antichi e libertà dei moderni. Che era stata, si sa, formulata in modo definitivo in un saggio del 1819, ma, circostanza interessante, appariva già in un saggio circolato anonimo negli anni del Direttorio post-rivoluzionario, probabilmente scritto a due mani con Madame de Staël, e volto a convincere il Direttorio a cercare l’appoggio degli «apolitici», di coloro, cioè, che durante le vicende rivoluzionarie avevano rivendicato il diritto di non «appartenere», di non essere, cioè, né giacobini né ultras e di preferire, invece, l’amore di pace.
Superata la prima intenzione di consiglio politico di occasione, nascerà, nel saggio di vent’anni dopo, la classica distinzione che resta tuttora a fondamento di sviluppi e precisazioni. Isaiah Berlin ne trarrà quelle che considerava le domande fondamentali per i possibili significati della libertà: «da chi voglio essere governato» – con la quale si esprimeva il desiderio di libertà degli antichi; e «quanto voglio esser governato» – che corrisponde al desiderio di libertà dei moderni.
Bobbio e Constant, tra pubblico e privato
Gli antichi, diceva Constant, si sentivano liberi quando potevano partecipare alla cosa pubblica, quando erano in grado di esser parte del governo della polis. I moderni si sentono liberi quando il governo li lascia in pace nell’organizzarsi i loro affari quotidiani e nel manifestare le loro credenze religiose. Mentre nella prima versione gli avversari, pur non espliciti, di questa tesi erano Rousseau e, in genere, i giacobini; nella versione del 1819, oltre che ai residui giocobinistici, Constant intendeva opporsi a una diversa versione di organicismo dello stato, quella degli ultras fautori della restaurazione, contro i quali egli combatteva in parlamento. Gli uni e gli altri puntavano a uno stato di «partecipanti». Al di là della proposta analitica, si trattava, anche questa volta, di una operazione politicamente mirata, grazie alla quale giacobini e reazionari apparivano spalla a spalla. E di essa si può dire risentì Bobbio, quando, nei saggi degli anni cinquanta, metteva spalla a spalla cattolici e comunisti, che, pur per diverse ragioni, si mostravano, per dir così, poco riverenti nei confronti della libertà borghese.
Diversi erano però, per Constant e per Bobbio, i rapporti che intercorrevano fra le due manifestazioni della liberta. Per il primo, la libertà pubblica ha la funzione di rendere possibile la libertà privata; e questa è fine a se stessa. Permette all’individuo di compiere le proprie scelte sociali e grazie a esse mirare a sviluppare sia le proprie personali potenzialità umane, sia sviluppare con le altre persone le ragioni di una solidarietà intellettuale (culturale, diremmo oggi). Si sa che questo motivo humboldtiano verrà poi, da John Stuart Mill, posto al centro delle ragioni della libertà. Da esso deriva che la partecipazione alla polis è, sì, necessaria anche per i moderni, ma soprattutto per evitare che si possa instaurare una tirannia la quale impedirebbe il libero esercizio della libertà privata. A questo si aggiunga che la partecipazione politica presenta anche aspetti negativi in quanto genera una sorta di «falsa coscienza». Infatti dà ai cittadini il sentimento di una loro importanza, ma questa rimane poi, per la maggior parte dei casi, puramente immaginaria.
Per Bobbio è la libertà liberale che deve essere funzionale alla libertà democratica. Senza la prima, la seconda non sarebbe possibile. Mentre Constant è preoccupato dall’aspetto «modellatore della personalità» che una politica «partecipatoria» può assumere (nel Settecento si aveva in mento soprattutto l’esempio di Sparta), e vede la difesa del privato come difesa dell’intimità della persona, Bobbio ha piuttosto in mente ciò che può derivare da modelli costituzionali differenti. La distinzione tra le due figure di pensatori non potrebbe meglio riflettersi che in questa differenza: il continuamente lacerato tra politica e intimità (amori, gelosie e infedeltà, situazioni romanzesche, fughe dalla scena pubblica), Constant; il tutto pubblico (almeno in apparenza) Bobbio. Ma, paradossalmente sappiamo che sarà il romanziere e grande diarista Constant a finire poi uomo politico, non Bobbio.
Bobbio, come preciserà poi anche in Politica e cultura del 1955, era preoccupato soprattutto di approfondire la distinzione tra libertà liberale e libertà democratica. La prima è uno stato di non impedimento; in cui è lecito tutto ciò che, non essendo né comandato né proibito, è automaticamente permesso: è, quindi, la situazione che vede lo stato governare il meno possibile e limitarsi ad assicurare la garanzia dei diritti individuali. La libertà democratica corrisponde, invece, al senso filosofico ed etimologico del termine «autonomia». Cioè alla situazione in cui non si ubbidisce ad altre norme che a quelle che si danno a se stessi. È una libertà che diventa possibile quando ci sia autogoverno. E mentre secondo la libertà liberale lo stato deve governare il meno possibile, secondo la libertà democratica si deve ubbidire alle leggi dello stato qualunque esse siano se è stata la maggioranza dei cittadini a dettarle. Da qui la definizione di liberal-democratici a quei regimi, come i nostri, dove la maggioranza fa le leggi, le quali però sono poi sottoposte, se del caso, al sindacato di costituzionalità di un organo giudiziario superiore.
Queste definizioni ci servono a illustrare le differenze tra diverse forme di regimi costituzionali, ma ci lasciano un po’ a bocca asciutta se vogliamo capire con quali tipi di struttura sociale l’una o altra forma appaiono compatibili; e in qualche modo da quella derivano. In altre parole, quelle che sia Constant, sia Bobbio, sia Berlin sembrano trascurare è la natura del fondamento prepolitico – o si potrebbe anche dire «sociologico» – del concetto di libertà. Constant sembra intravederlo in quei riferimenti che fa all’intimità e agli affari come domini che permettono alla persona di essere padrona di se stessa. Ma anche per Constant la situazione essenziale in cui viene confermato o meno il godimento della libertà resta definita dalla natura del rapporto tra potere statale e individuo. Non è che dallo stato che possono venire la garanzia o la minaccia alle libertà dell’individuo.
Libertà di «conversione», identità, pluralismo
Ora, ci deve essere stato dell’altro, nell’avvento delle libertà moderne, che non possiamo spiegare né come concessione di diritti da parte dello stato ai sudditi; né tanto meno come conquista di diritti, per mezzo di sommosse o rivoluzioni o altre battaglie, da parte di popolazioni prive di potere in lotta contro chi già controllava il potere politico. Se si ottengono diritti politici non può avvenire dal nulla, grazie a lotte che, se condotte da impotenti contro potenti, sarebbero inevitabilmente impari, bensì perché si hanno già in mano altri poteri, che vengono esercitati in altre sfere di attività, anche se queste ci si presentano come prepolitiche. Quando poi i prodotti che queste attività generano diventano tali da essere necessari all’esercizio del potere amministrativo-militare che costituisce lo stato, il loro possesso di fatto permetterà l’acquisizione di diritti che verranno sanzionati politicamente e istituzionalizzati.
Questo processo è evidente per quanto riguarda il diritto di proprietà. Il diritto dell’esercizio di rapporti di proprietà su beni, infatti, non nasce al momento in cui esso viene riconosciuto da qualche autorità politica (amministrativo-militare). È già lì di fatto quando un proprietario viene riconosciuto da altri proprietari che entrano in transazione con lui. Quando, poi, il sistema di riconoscimenti, cioè di diritti effettivi, che permette all’uno e all’altro proprietario di entrare in relazione reciproca, va a costituire un mercato; e quando i prodotti di questo si rendono necessari per l’esercizio del potere amministrativo-militare dello stato, il diritto di proprietà (di proprietà individuale esclusiva, nel senso moderno di questo istituto) verrà riconosciuto anche costituzionalmente; e sarà a fondamento della libertà di intraprendere la propria attività economica senza essere disturbati dagli arbitri del potere politico. L’individuo liberale è libero in quanto esercita, senza impedimenti che gli vengano dallo stato, il potere che già gli viene dal suo essere proprietario e riconosciuto dagli altri proprietari.
È tutto qui? No, ovviamente ci deve essere dell’altro a voler spiegare la gamma delle libertà moderne. Se infatti il diritto di proprietà è uno dei due pilastri su cui poggia l’edificio delle libertà moderne, un altro resta da considerare, che è di natura, almeno apparentemente, assai diversa. Esso nasce dalle ceneri del sistema di ortodossia «organizzata» (che come tale, cioè come religione non politica organizzata centralmente, fu l’unico che la storia abbia conosciuto), quando lo incendiò la riforma protestante. Da queste ceneri si formarono le premesse di un’esigenza, che fu poi riconosciuta come diritto, di poter agire per convertire gli altri, e di potersi convertire. Senza questa libertà di conversione, di convertire e di convertirsi, di predicare e di agire credendo a ciò che viene predicato, noi non potremmo capire la libertà politica, oltre che religiosa, che è propria dei moderni. Saremmo costretti a credere, secondo gli schemi della cosiddetta azione razionale, che l’essenza dell’azione politica, in quanto tale (cioè escludendone le patologie), è mirata ad ottenere benefici, e non invece a convertire gli altri a pensarla come noi. E quindi a convincerli a credre che i loro interessi siano diversi, o definibili in maniera diversa, da quanto fino a un certo momento abbiano creduto.
Questa forma di libertà è altra da quella degli antichi, la quale mirava a permettere la partecipazione al governo della polis, o, oggi, dello stato. La partecipazione a questo livello potrà poi risultarne, o no. Ma il proprio di questa libertà sta in una qualità dell’agire della persona di fronte al’altra persona, non nella partecipazione al governo della collettività. Non risponde alla domanda berliniana: voglio essere libero di decidere da chi essere governato. Bensì a quella: voglio essere libero di decidere con chi unirmi (religione, etnia, genere, partito, movimento) per costituire un’identità comune, duratura nel tempo, per la quale ricevere il diritto a essere riconosciuto. È quindi la libertà che rende possibile una società pluralistica.
Ma è anche una forma di libertà diversa dall’altra che abbiamo esaminato (la libertà liberale, secondo Bobbio; desiderata dai moderni, secondo Constant; che protegge dall’eccesso di governo, secondo Berlin): quella, cioè, che possiamo rivendicare contro gli impedimenti che disturbano i nostri affari. Ne è, in un certo senso, l’opposto. Perché, essendo libertà di poter convertire gli altri, è anche, implicitamente, disponibilità a convertirsi, se convinti.
E si noti come in questo modo viene smascherato e rovesciato lo sprezzo che il liberalismo ha sempre ostentato nei confronti del suo acerrimo nemico, intendo dire il paternalismo. Quale ipocrisia nel principio liberale che ognuno è il miglior giudice dei propri interessi, quando la natura degli interessi di ognuno, e dei mezzi per conseguirli, è continuamente influenzata, ridescritta, reinterpretata dall’intreccio delle continue conversioni; che certo non riguardano soltanto le preferenze religiose, o ideologiche, ma le preferenze di consumo di beni e di condotta quotidiana. La libertà politica che la società dei moderni ci permette è quella di continuamente agire per modificare le preferenze degli altri, e non limitarsi a rappresentarle.
È del resto grazie a questa disponibilità di una persona di fronte a un’altra che posiamo capire come sia profonda, nella vita società dei moderni, la propensione all’innovazione. Disponibilità alla conversione significa capacità di abbandonare aspetti del proprio io passato che ci tengono legati ala tradizione, alle abitudine, alle cose imparate, e che qualcuno può rivelarci non vere. Significa non restar chiusi in qualche immutabile identità.
Vedere l’ingiustizia, senza poterla combattere
Che ne è, a questo punto, delle preoccupazioni di libertà che tanto assillavano i nostri classici? E includerò tra questi un classico così recente come Bobbio. Che ne è del timore del potere arbitrario, del diritto di partecipare all’autogoverno? In un mondo in ci il potere, per il suo modo di manifestarsi, non è mai arbitrario, in quanto ogni suo comando può venir riportato a leggi – ma leggi che non conosciamo, e dalla cui formulazione e discussione è esclusa l’immensa maggioranza della popolazione, la quale, del resto, nel suo complesso, appare largamente vaccinata alle notizie di presenza di arbitrio nei processi che dovrebbero governarla, e diventa, in sempre maggior numero indifferente alla libertà di scegliere chi in quei processi dovrebbe rappresentarla.
Il celebrato detto «la libertà è come l’aria, quando c’è non ce ne accorgiamo, quando non c’è soffochiamo» è probabilmente vero, almeno per un certo numero di persone e per qualche tempo. Ma è difficile pensare che sia vero per tutti e a lungo. E se lo è, è ormai improbabile che si riferisca ala libertà cui pensavano i classici del pensiero politico. Bobbio, nel suo scritto su Democrazia e potere invisibile, sembra averne intravisto un aspetto nuovo. Riconoscendo che «la debellatio del potere invisibile da parte di quello visibile non è avvenuta», individua in certe forme del governo contemporaneo una manifestazione di non-libertà di cui difficilmente ci accorgiamo. È vero, quando ce ne accorgiamo (sotto-governo, cripto-governo, servizi segreti, «secondo stato», arroganza dei potenti) ci indigniamo. Ma con che mezzi reagiamo? La stampa, qualche volta, denuncia. Allora l’indignazione di alcuni di noi aumenta, ma continua a restare vana. È come se l’ingiustizia e l’assenza di libertà non fossero più al riparo dei nostri sguardi e delle nostre accuse, ma lo restassero della nostra volontà.
(Il saggio costituisce la rielaborazione della relazione tenuta a Torino in occasione delle celebrazioni in onore dei settantacinque anni di Bobbio)
Alessandro Pizzorno
8 Gennaio 2014