domenica, 24 Novembre 2024

CHI DÀ UNA MANO A TRUMP NELLO SCONTRO CON L’IRAN

Pierre Haski, L’Obs, Francia (su Internazionale)

Gli apprendisti stregoni stanno tornando. Lo ammettono gli stessi rappresentati dell’amministrazione Trump: prima che in Medio Oriente si raggiunga una situazione migliore ci saranno varie turbolenze.

Il problema è che gli statunitensi e il resto del mondo sono già passati da una situazione simile, nel 2003, con il rovesciamento del regime di Saddam Hussein in Iraq. La caduta del dittatore avrebbe dovuto portare, come nel Giappone e nella Germania del 1945, a una democrazia sotto l’egida degli Stati Uniti. Sappiamo come sono andate le cose.

Oggi troviamo gli stessi ingredienti in questa nuova crisi, con la stessa volontà ideologica di rovesciare un regime poco simpatico, e con l’idea che, quando questo non ci sarà più, le cose andranno inevitabilmente meglio.

La soddisfazione di Israele
Il mondo considera Donald Trump come un isolazionista, nel filone della grande tradizione statunitense, ovvero, secondo la definizione usata da Maya Kandel nel libro Les Etats-Unis et le monde (Gli Stati Uniti e il mondo), ostile “a tutto ciò che potrebbe coinvolgere gli Stati Uniti in questioni di politica estera che non li riguardano direttamente”. Alla fine si rivela un neoconservatore, circondato da personaggi emblematici di questa scuola di pensiero a cui dobbiamo appunto il catastrofico coinvolgimento in Iraq.

Vi piacevano Dick Cheney, Donald Rumsfeld, Paul Wolfowitz e altri “cavalieri dell’apocalisse” dell’amministrazione Bush? Adorerete il nuovo consigliere alla sicurezza nazionale della Casa Bianca John Bolton, il segretario di stato Mike Pompeo, la direttrice della Cia (in attesa di conferma) Gina Haspel.

Ma tutto era evidentemente già scritto nel primo viaggio all’estero di Donald Trump dopo la sua elezione, un anno fa, in Arabia Saudita e in Israele. L’irruzione del nuovo presidente statunitense, sbarcato in Medio Oriente con delle idee semplici, ha galvanizzato un asse che ha in comune innanzitutto lo stesso nemico giurato: l’Iran.

Questo asse anti-iraniano è eterogeneo, ma ha un grande peso nella regione

Il 9 maggio, dopo l’annuncio di Trump, proprio da Israele e dall’Arabia Saudita sono arrivati i primi, e rari, complimenti. Benyamin Netanyahu non poteva che rallegrarsi di quest’annuncio fondato proprio sulla presentazione Power point che lui stesso aveva fatto qualche giorno prima, e che era destinata a un uomo solo: il presidente degli Stati Uniti. Poco importa che i negoziatori dell’accordo nucleare avessero concluso che non c’era niente di veramente nuovo. Almeno per Trump.

Il primo ministro israeliano aveva già spinto l’amministrazione Bush a rovesciare Saddam Hussein, cosa che, secondo quanto dichiarato da Netanyahu in un intervento al congresso americano del 2002 e che da 24 ore impazza sul web, avrebbe avuto “immense conseguenze positive nella regione”. Aveva poi lottato senza successo con Barack Obama per impedirgli di firmare l’accordo sul nucleare iraniano. Con Donald Trump al potere, celebra il suo trionfo.

La soddisfazione dell’Arabia Saudita
Stessa atmosfera a Riyadh dove, il 9 maggio, Siraj Wahab, caporedattore di Arab News, definiva la decisione di Donald Trump la “più significativa vittoria del lavoro di lobby del principe ereditario Mohamed bin Salman a Washington”. Un’affermazione subito seguita da un messaggio di sostegno del re Khalid bin Salman, il quale ha affermato di aver sempre avuto delle riserve nei confronti dell’accordo sul nucleare, nonostante l’avesse sostenuto al momento della firma, facendo buon viso a cattivo gioco di fronte a Barack Obama.

Questo “asse” anti-iraniano è eterogeneo, ma ha un grande peso nella regione. Se per l’Arabia Saudita, guardiano dei luoghi santi dell’islam, la rivalità con l’Iran rispecchia quella secolare tra le due principali correnti della religione musulmana, sunnita e sciita, sono motivazioni strategiche a muovere lo stato ebraico. Quest’ultimo ha dovuto fare i conti a più riprese con l’Hezbollah libanese, sostenuto e armato da Teheran, e vede di cattivo occhio il rafforzamento delle posizioni iraniane in Siria, alle porte d’Israele.

Vista da Washington, la prospettiva è un’altra ancora. L’Iran è una vecchia conoscenza: è a Teheran, nel 1953, che la Cia, spinta da un Regno Unito furioso per la nazionalizzazione degli idrocarburi iraniani, ha ordito il rovesciamento del primo ministro Mohammad Mossadegh, prima ingerenza statunitense nelle questioni del Medio Oriente nell’ambito della guerra fredda.

L’Iran è tornato a tormentare gli Stati Uniti più volte da allora, soprattuto con la rivoluzione islamica del 1979 che ha rovesciato il regime dello scià, fino ad allora un solido alleato di Washington. L’umiliante presa d’ostaggi dell’ambasciata degli Stati Uniti a Teheran, nel 1979, i 241 marines statunitensi uccisi nell’attentato di Beirut del 1983, la distruzione di un Airbus civile di IranAir da parte di una nave da guerra americana nel 1988, che ha provocato 290 morti, oppure il ciberattacco israelo-statunitense, tramite il virus Stuxnet, ai danni del programma nucleare iraniano, sono altrettante ferite tra i due paesi, tra il “grande Satana” americano e il pilastro iraniano dell’“asse del male”.

I falchi di Teheran, come quelli di Washington, non avevano niente da guadagnare dalla distensione auspicata da Obama e Rohani

Di fatto, una parte degli Stati Uniti non ha mai rinunciato a premere per un cambiamento di regime in Iran, in particolare nel corpo dei marines, che vive nella memoria dell’attentato di Beirut, e tra le fila dei neoconservatori, che hanno oggi il vento in poppa.

Paradossalmente questi si rivelano essere, di fatto, gli alleati del clan dei falchi vicini alla Guida suprema iraniana, l’ayatollah Ali Khamenei, e dei comandanti del corpo dei Guardiani della rivoluzione e dei servizi di sicurezza della Repubblica islamica, che non hanno mai veramente digerito i negoziati per l’accordo nucleare con il “grande Satana” da parte del governo moderato guidato dal presidente Hassan Rohani.

Questo dualismo del potere iraniano si rifletteva mercoledì mattina nella stampa iraniana, tra i sostenitori dei Guardiani della rivoluzione, che spingevano per un inasprimento della linea ufficiale, e quelli del presidente Rohani, che si aggrappava all’idea che l’accordo nucleare potesse sopravvivere qualora gli europei s’impegnino ad applicarlo anche senza gli Stati Uniti.

I falchi di Teheran, come quelli di Washington, non avevano niente da guadagnare dalla distensione auspicata tanto da Barack Obama quanto da Hassan Rohani. La scommessa dei due uomini si fondava sull’idea che il miglioramento della situazione economica cui aspira la popolazione iraniana, in particolare le classi medie urbane, le meno soggette all’influenza religiosa, avrebbe portano a una definitiva distensione tra i due paesi.

Ma il contesto internazionale non l’ha permesso. Gli investimenti sperati sono arrivati con il contagocce, a causa delle evidenti esitazioni di Washington, mentre il coinvolgimento iraniano in Siria e il proseguimento del programma balistico dell’Iran accrescevano la frustrazione dei nemici di Teheran.

Tutto è ormai pronto per un vero e proprio scontro che gli europei, nei limiti dei loro mezzi e della loro coerenza politica, tenteranno nei prossimi giorni di evitare.

L’asse Arabia Saudita-Israele-Stati Uniti ha scoperto le sue carte, spingendo all’errore l’Iran per poter più facilmente abbattere il suo regime. Questo scontro può prendere forme diverse: quella di uno scontro diretto tra Israele e Iran sul territorio siriano, oppure quella di uno strangolamento progressivo dell’Iran attraverso le sanzioni e la destabilizzazione politica.

Dallo Yemen al Libano, passando dalla Siria e dall’Iraq, questo brusco aumento delle tensioni tra i due blocchi rischia decisamente di provocare un’escalation che nessuno sarà in grado poi di gestire. In particolare non Donald Trump il quale, come testimoniano tutti quanti abbiano frequentato la sua amministrazione, non ha la minima idea di quel che succederà nel “day after”, il giorno successivo al conflitto. Come in Iraq nel 2003.

(Traduzione di Federico Ferrone)

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