La guerra dei dazi tra Usa e Cina sembra rientrata, ma resta il tema della dipendenza della crescita mondiale da quella cinese. I suoi pilastri sono stati accumulazione di capitale e aumento di popolazione attiva e produttività. Cosa accadrà in futuro?
TRA USA E CINA È TEMPO DI ACCORDI
È stata una minaccia che per ora non ha avuto seguito, quella di Donald Trump, perché l’accordo con Xi Jinping è stato trovato piuttosto rapidamente. Ma la tensione delle relazioni economiche tra Stati Uniti e Cina dopo la minaccia di Trump di imporre dazi su una serie di importazioni cinesi per ridurre il forte disavanzo commerciale americano ha sollevato il tema ben più ampio degli squilibri delle partite correnti delle due economie più grandi del mondo.
Si tratta della dipendenza strutturale della crescita mondiale da quella cinese – che nel 2017 è stata del 35 per cento, circa il doppio rispetto agli Stati Uniti – e quindi della sostenibilità dello sviluppo della Cina. Infatti, se è vero che la “fabbrica del mondo” ha spiazzato investimenti e depresso il livello dei prezzi in tanti settori in molti paesi, è altrettanto vero che la domanda di consumatori e imprese cinesi ha sostenuto la produzione e l’export di molti paesi avanzati, emergenti e poveri.
Nessuno dovrebbe quindi augurarsi un rallentamento in Cina, Stati Uniti inclusi, che infatti hanno perseguito la strategia della minaccia di una feroce guerra commerciale per ottenere, in realtà, un rientro del disavanzo bilaterale. Il ribilanciamento non avviene attraverso una riduzione delle importazioni (come sarebbe successo se la guerra commerciale fosse iniziata), ma, al contrario, con un aumento delle esportazioni agricole statunitensi verso Pechino, tra il 35 e il 40 per cento solo quest’anno, il raddoppio di quelle energetiche nei prossimi 3-5 anni (secondo le dichiarazioni del segretario del Tesoro Steven Mnuchin), oltre a una serie di obiettivi settoriali di export, in un accordo che i negoziatori cinesi e statunitensi hanno raggiunto la settimana scorsa.
Si invoca un necessario “cambiamento strutturale”, nelle parole del rappresentante del Commercio Robert Lighthizer, senza però far inceppare il meccanismo che più ha contribuito alla crescita mondiale: il commercio estero e gli investimenti nei settori esportatori. Lo stesso volano che ha permesso a Pechino di diventare la seconda economia del mondo e che Washington pretende di riportare in parte a casa.
I FATTORI CHE HANNO SPINTO LA CRESCITA
Tutto questo porta a chiedersi quali potranno essere le conseguenze sulle fonti della futura crescita cinese, in un mondo che chiede al paese asiatico di aprire la porta alle merci estere tanto quanto gli altri hanno accolto le merci cinesi negli ultimi 40 anni.
Se guardiamo alla crescita passata, vediamo che il motore primo non è stato l’export. Tenendo dovuto conto del contributo netto della domanda estera alla crescita del Pil, il commercio estero ha pesato per pochi punti percentuali (e in alcuni anni pure in negativo), poiché le esportazioni cinesi sono sempre state fortemente intensive in importazioni, con un valore aggiunto nazionale molto basso. Il vero motore è stato l’accumulazione di capitale: nel 2014 ha raggiunto un picco del 45 per cento del Pil, mentre lo stock di capitale pro-capite il 48 per cento, un livello molto più alto di quello che avevano le odierne economie mature dell’Asia (Taiwan, Corea del Sud e Giappone) a livelli simili di sviluppo economico.
Da quel momento, l’investimento annuo ha iniziato a rallentare, perché dal 2009 i settori che hanno trainato gli investimenti sono stati le costruzioni e le infrastrutture, proprio per compensare la minor vivacità dell’export dovuta al crollo della domanda mondiale negli anni della crisi. Ma quando il fabbisogno di infrastrutture e la domanda di abitazioni hanno iniziato a rallentare, si è visto che il vecchio motore era inceppato e che la Cina sarebbe cresciuta a ritmi più sostenibili intorno del 6-7 per cento annuo, e non più del 10 per cento.
Al contempo, sono venuti meno gli altri due pilastri della crescita. Il primo, cioè l’aumento della popolazione attiva registrato ininterrottamente dal 1960, si è esaurito proprio in questi anni. Si allargano le fila delle coorti più anziane, ma non altrettanto quelle dei bambini (per l’aumento della partecipazione femminile al mercato del lavoro urbano, che vanifica in buona parte l’abolizione della politica del figlio unico). La Cina diventerà così un paese vecchio prima di essere diventato un paese ricco.
Il secondo, la crescita della produttività, è fortemente legato alla crescita dell’export, in quanto la capacità di competere sui mercati globali fornisce alle imprese forti incentivi ad aumentare la produttività e l’esposizione alla concorrenza internazionale di per sé è un potente meccanismo di diffusione della tecnologia. Dai dati di Conference Board analizzati da Capital Economics, si vede che dal 1960 i paesi che hanno saputo generare una crescita della produttività sono anche quelli con la maggior crescita delle esportazioni: mediamente un aumento della produttività del 3 per cento l’anno è associato a un’espansione dell’export del 20 per cento annuo. Raramente (solo nell’1,2 per cento dei casi) si è registrato un aumento di produttività che non fosse associato a una forte capacità di esportare.
Questo ci suggerisce quanto poco probabile sia un ulteriore significativo aumento della produttività totale dei fattori in Cina, dal momento che la quota cinese sull’export mondiale ha raggiunto il 13 per cento e la domanda estera di beni cinesi è arrivata anch’essa a un capolinea. E la diffusa proprietà e controllo pubblici delle imprese non aiutano, se almeno dal 1995 il loro Roa (return on assets) è stato mediamente inferiore a quello delle imprese indipendenti, e dal 2007 si è aperta una forbice a favore di queste ultime. Tutto ciò fa pensare che la Cina possa non sostenere neppure un 6 per cento annuo senza un’adeguata crescita del consumo, che però stenta ad accelerare. A Pechino il 19 maggio i negoziatori hanno fugato i timori di una guerra commerciale, ma non quelli di un forte ribilanciamento, che gli Stati Uniti vogliono accelerare in Cina.