Con la sua strategia di “going out” (oggi spesso ricondotta sotto al cappello della Belt and Road Initiative) la Cina è diventata un grande creditore del mondo. I soli Paesi a basso reddito devono oggi a Pechino oltre 100 miliardi di dollari: più del doppio di quanto debbano a tutti i Paesi occidentali messi insieme.
- Dopo 15 anni di discesa continua, l’impennata dell’ultimo decennio ha portato il debito dei Paesi a basso reddito a superare i livelli più alti dalla fine degli anni Novanta. In media, questi Paesi devono destinare il 17% delle entrate statali al ripagamento del debito, anziché a servizi ai cittadini o a investimenti produttivi.
- Il peggiorare delle condizioni economiche costringe sempre più Paesi a basso reddito a cercare di rinegoziare i propri debiti. E per farlo devono sempre più spesso rivolgersi a Pechino, anziché ai creditori occidentali. Negli ultimi dieci anni quasi il 70% dei rinegoziati di debito ha coinvolto una controparte cinese.
- Da parte sua, la Cina è riluttante a rinegoziare il debito con i Paesi che lo richiedano, trascina i negoziati per tempi più lunghi e spesso concede dilazioni nei ripagamenti più che vere e proprie cancellazioni. Condizioni nettamente peggiori di quelle concesse da molti Paesi occidentali nell’ultimo mezzo secolo.
- Le conseguenze politiche di queste dinamiche sono chiare: la Cina non può più proporsi come modello alternativo e insieme virtuoso, ma è progressivamente accomunata ai creditori occidentali “classici”. Nei prossimi anni, poi, è probabile che i nuovi investimenti pubblici cinesi verso il mondo siano persino inferiori rispetto alle entrate da debito e interessi. Insomma, sui flussi finanziari, i cinesi stanno rapidamente passando da “going out” a “coming back home”.
Sono bastati gli ultimi quindici anni, ed è cambiato il mondo. Tra il 2006 e oggi la Cina è diventata il maggior creditore dei Paesi in via di sviluppo, in parte riempiendo un vuoto lasciato dall’Occidente. Era la metà degli anni Novanta quando gli Stati Uniti e 21 altri Paesi che erano tradizionalmente creditori dei Paesi in via di sviluppo (il cosiddetto “club di Parigi”) decisero di ridurre l’entità della loro esposizione creditoria nei confronti delle nazioni più povere. Un “haircut” finanziario che cancellò i debiti di molti Paesi poveri, ma che al contempo rese i Paesi avanzati più riluttanti nel concedere nuovi grandi finanziamenti.
Dalla seconda metà degli anni Duemila, così, il vuoto è stato progressivamente colmato da Pechino. Nel 2013 poi, con il varo della “Nuova via della seta” da parte del neopresidente Xi Jinping (oggi Belt and Road Initiative, BRI), Pechino ha finanziato centinaia di progetti in 149 Paesi. Tra ferrovie in Africa, porti in Asia e strade in America Latina, il governo cinese ha ampliato in modo significativo la sua influenza politica ed economica, soprattutto in quei Paesi “sud del mondo”, affamati di capitali ma con difficoltà nel reperire i rischiosi finanziamenti necessari al loro sviluppo.
Secondo la Banca Mondiale, la Cina è oggi il più grande creditore pubblico dei Paesi in via di sviluppo, con oltre 110 miliardi di euro ancora da ricevere, contro i circa 55 miliardi dei 22 Paesi del club di Parigi e altri 25 di altri Paesi.
Mentre cresce il debito dei Paesi in via di sviluppo nei confronti della Cina, aumenta anche il numero dei Paesi che negli anni hanno chiesto a Pechino di rinegoziare il debito accumulato. Gli eventi degli ultimi mesi hanno acuito le difficoltà delle economie più fragili, che si trovano di fronte a maggiori spese ma a costi sempre più elevati in caso di emissione di nuovo debito (o rifinanziamento di quello in scadenza).
Così il mondo dei rinegoziati del debito, che prima era dominato dai 22 Paesi del club di Parigi, adesso è sempre più un “affare cinese”. Il che genera non pochi problemi. Il primo in ordine di importanza: anziché cancellare i debiti, la Cina preferisce estenderne i termini di ripagamento. Spalmando il debito su più anni, e dunque di fatto perdendoci comunque rispetto al valore iniziale dell’investimento. Ma, ancora molto spesso, senza alleviare in maniera sostanziale il peso del debito che i Paesi debitori si trovano a dover pagare.
Questo problema ne genera un secondo: quando Pechino non accetta un taglio del debito pregresso, il Fondo monetario internazionale non accetta di salvare Paesi in difficoltà. Il che prolunga le crisi di debito ben oltre i tempi che in passato la comunità internazionale avrebbe impiegato per raggiungere un accordo.
Ma perché il numero dei rinegoziati è in aumento? A livello globale, la situazione finanziaria degli stati a reddito basso e medio-basso è in continuo deterioramento. Nel 2023, per questi Paesi, il servizio del debito estero raggiungerà un picco che non si toccava dal 1998, superando in media il 16% delle entrate pubbliche totali. Innegabile che l’ultimo periodo abbia presentato criticità eccezionali, fra pandemia, crisi energetica, inflazione e aumento dei tassi di interesse. Nondimeno, questo record negativo è anche frutto di un trend che dura da più di dieci anni. È infatti dal 2011 che, in media, il peso della somma che i Paesi poveri devono ai loro creditori stranieri continua a crescere rispetto alle loro entrate statali complessive.
La combinazione di questi fattori porta a un quadro tutt’altro che roseo per i Paesi in via di sviluppo. Il report annuale del 2022 pubblicato dal Fondo Monetario Internazionale indica che lo scorso anno 13 stati erano “in sofferenza” (“debt distress”), mentre altri 43 erano “ad alto rischio” di trovarsi in tale stato (dieci anni fa nessun Paese era classificato come “debt-distressed”, e solo 21 erano ad alto rischio). Non c’è quindi da stupirsi se il numero dei debitori che bussano alla porta della Cina è cresciuto.
La pressione si accumula. E, in alcuni casi, sfocia in vere e proprie crisi.
Lo Sri Lanka è un esempio emblematico. Nell’ultimo decennio il piccolo stato dell’Oceano Indiano, uno dei punti cardine della Belt and Road Initiative, è stato inondato di capitali cinesi. Com’è finita? Nel 2022 il governo di Colombo, non perché indebitato con Pechino ma perché dilaniato da una crisi alimentare dilagante e dall’inflazione, è stato costretto a dichiarare il default finanziario. Nei mesi successivi, lo Sri Lanka è riuscito a ottenere qualche concessione sia dal Fondo Monetario Internazionale, sia dalla Cina. Tuttavia, Pechino non ha accettato di sedersi con gli altri creditori per intavolare negoziati comuni. Una scelta pienamente in linea con l’ambizione cinese di offrire un’alternativa all’egemonia del club di Parigi, ma che rende sempre più complesso rinegoziare i debiti.
Per quanto tempo Pechino potrà sostenere la sua politica sui rinegoziati? Il limbo in cui precipita i Paesi risulta dannoso non solo per le finanze cinesi, su cui grava il peso di prestiti non sempre redditizi, ma anche e sempre più per i Paesi debitori a basso reddito. A tal proposito, il caso dello Zambia è significativo. Dopo aver mancato un primo pagamento nell’ottobre 2020 e essere dunque finito in “default”, il governo di Lusaka ha passato oltre due anni a tentare di rinegoziare il proprio debito. Con scarsi risultati, anche e soprattutto perché Pechino – il maggior creditore di Lusaka – ha acconsentito a trattare con gli altri creditori occidentali soltanto a maggio 2022. Tale scelta è stata decisiva per sbloccare i negoziati e giungere a un primo accordo a luglio dello stesso anno – cosa che per certi versi ha rappresentato un successo, considerando la scarsa propensione cinese alla cooperazione. Tuttavia, secondo stime del Fondo Monetario Internazionale, la lentezza del processo è costata allo Zambia l’accumulo di quasi tre miliardi di dollari di arretrati. Per giunta, alcuni aspetti del rinegoziato rimangono ancora da definire.
In questi anni si è molto parlato di quanto i Paesi emergenti e in via di sviluppo abbiano progressivamente voltato le spalle all’Occidente, cercando fonti di legittimazione politica e modelli di sviluppo alternativi, ma anche nuove linee di credito e capitali meno “condizionati” dai lacci e lacciuoli occidentali (come la protezione dello stato di diritto e della democrazia, o più direttamente delle prospettive di rendimento degli investimenti effettuati). Si è anche molto discusso di quanto molti Paesi guardassero con sempre maggior interesse alla Cina, come modello di sviluppo o come principale investitore internazionale.
Dai numeri che trovate qui sopra sembra invece che le cose stiano rapidamente cambiando, e che la Cina sia sempre più percepita come un creditore come gli altri; anzi, un creditore persino più ostinato dei partner occidentali, perché ostacola la ristrutturazione del debito dei Paesi in crisi (soprattutto quando questi non sono diretti alleati politici).
Non solo: malgrado i finanziamenti cinesi tendano a essere opachi, recenti ricerche mostrano come i prestiti provenienti dalla Cina tendano a essere concessi con tassi d’interesse medi del 5%, ovvero più che doppi rispetto al 2% medio del Fondo monetario internazionale. Non esattamente un regalo per Paesi già in difficoltà economiche.
Infine, come dimostra il grafico qui sopra, la Cina fa sempre più fatica a raccontarsi come creditore netto anche nel futuro, per Paesi che abbiano bisogno di finanziare nuove infrastrutture d’ora in avanti. Il peso dei crediti concessi negli ultimi 15 anni costringe infatti Pechino a essere sempre più prudente. Tanto che, su questo e i prossimi anni, c’è addirittura chi prevede che i flussi netti di capitali pubblici dalla Cina diventeranno negativi, cioè che il rimpatrio dei capitali supererà la loro uscita verso il mondo. Quasi come se si fosse passati dalla strategia di “going out” (formulata nel 1999) a una di (implicito) “coming back home”.
[ ISPI DataLab ]