Da oltre un decennio non si contano le proteste e le critiche rivolte dall’opinione pubblica italiana al governo degli Stati Uniti per la prigione di Guantanamo. Cioè per la detenzione in quella base americana nell’isola di Cuba di qualche centinaio (attualmente credo solo qualche decina) di persone di varie nazionalità gravemente sospettate di appartenere a formazioni terroristiche islamiche: detenzione tuttavia senza processo, e quindi a tutti gli effetti illegale secondo le buone regole dello Stato di diritto.
Anche per questo appare davvero singolare il silenzio assoluto che invece ha accolto proprio in Italia la notizia dell’inasprimento delle misure repressive già durissime e di pari illegalità che il governo della Repubblica Popolare Cinese ha recentemente deciso nei confronti degli Uiguri. Cioè di una popolazione turcofona, musulmana sunnita, non di etnia Han, abitante nella regione di confine dello Xinjiang, dove fino a poco fa essa rappresentava la maggioranza, e la cui colpa, agli occhi di Pechino, è quella di voler mantenere la propria identità.
Il governo cinese ha intrapreso da tempo una politica di radicale snazionalizzazione della popolazione uigura vietando le pratiche religiose, l’uso della lingua e ogni forma di organizzazione autonoma, con relativo controllo poliziesco attraverso la vigilanza sull’accesso a internet e la diffusione in tutti gli spazi pubblici di videocamere dotate di software avanzatissimo per il riconoscimento facciale. Vige inoltre l’obbligo per le famiglie sospette di ospitare nel loro seno rappresentanti dello Stato per soggiorni più o meno lunghi, e infine una serie di discriminazioni a vantaggio degli immigrati Han il cui arrivo nella regione viene favorito in ogni modo.
Non bastando tutto ciò Pechino ha deciso l’installazione nel Xianjiang di «centri chiusi di rieducazione politica», in realtà dei veri e propri campi di concentramento, del cui numero è stato per l’appunto annunciato di recente l’aumento: fino ad ospitare la cifra spaventosa di un milione di persone. Ulteriore particolare agghiacciante: la detenzione di un così alto numero di persone, producendo un alto numero di bambini senza famiglia, ha portato all’apertura di convitti dove essi vengono «educati» dallo Stato al fine di rimodellare per così dire all’origine l’identità uigura.
In tutto ciò non c’è nulla di particolarmente sorprendente. Il regime cinese, infatti, non ha mai cessato di essere un regime totalmente illiberale, nazionalista ed espansionista come pochi, intollerante di ogni autonomia, avverso a qualsiasi libertà politica, religiosa, sindacale, persecutore feroce degli oppositori politici e repressivo in ogni suo aspetto (non a caso la Cina detiene il record mondiale delle condanne a morte). Ma dalla scomparsa di Mao in avanti la Cina è guidata da una leadership di grande intelligenza politica. La quale ha capito che i propri propositi egemonici a vastissimo raggio possono essere portati avanti nel modo migliore lasciando da parte le vecchie illusioni ideologiche legate al «comunismo» (il «comunismo» serve solo all’interno per giustificare il potere assoluto del partito unico), e puntando invece su altri mezzi. Innanzi tutto sull’influenza economica e sul denaro. Due mezzi che con l’Occidente e non solo si stanno rivelando efficacissimi.
Un mercato gigantesco, un governo il quale, se vuole, mette a disposizione tutto e se vuole finge anche singole liberalità, che è pronto a gettarsi nei progetti più ciclopici e a finanziare ogni iniziativa capace di allargare il proprio raggio d’azione, che compensa più che lautamente gli ospiti e gli amici: è così che la Cina afferma la sua egemonia mondiale. Ed è così che da anni industriali, «creativi», professionisti, politici, stilisti, intellettuali, personalità d’ogni genere provenienti dai Paesi occidentali si recano speranzosi nel Celeste Impero, ne sono ospiti entusiasti, stabiliscono relazioni, vi fanno affari, lo vezzeggiano in ogni modo, vi tengono conferenze remuneratissime.
A questo punto a chi volete che importi qualcosa degli Uiguri, dei diritti umani dei cinesi, dei gulag e compagnia bella? E infatti come ho detto all’inizio non importa a nessuno. Alla prova dei fatti questo sembra essere l’attaccamento del nostro continente ai suoi valori. Viene quasi da pensare che se a suo tempo non ci fossero stati né gli Usa né Pio XII, e Stalin invece di schierare migliaia di carri armati, avesse aperto da Stettino a Trieste una catena di discount, l’Europa sarebbe stata ai suoi piedi.
Oggi, in realtà, la sua situazione non è molto diversa da questa. Solo che adesso, al posto della sola Unione Sovietica ritornata ad essere la Russia ci sono almeno altri due o tre grandi centri di potere economico e quindi politico che premono su di noi muovendosi con la massima spregiudicatezza. La Cina, appunto, e poi la Russia, il mondo arabo (con il Qatar e l’Arabia Saudita in prima fila), perfino la stessa Turchia di Erdogan, mostrano per chiari segni di volersi avvalere delle loro risorse finanziarie e di ogni altro strumento «pacifico» a loro disposizione per penetrare e condizionare in un modo o nell’altro la nostra vita politica. Quanto i russi hanno tentato di fare nel caso delle ultime elezioni presidenziali americane – sull’esito effettivo si può discutere ma sul tentativo no – è l’esempio di ciò che può accadere.
Bisogna guardare in faccia la realtà. Un intero passato è oggi svanito. Per molti decenni la tensione etica ereditata dagli anni della guerra mondiale e che caratterizzò pure il confronto con il comunismo sovietico, la solidità politica e culturale dei partiti cristiani e socialdemocratici allora egemoni, e diciamo pure la vigilanza americana, valsero nella seconda metà del Novecento a erigere una barriera invalicabile intorno alle classi dirigenti europee occidentali. Assicurando la loro impermeabilità a lusinghe, seduzioni, allettamenti del più vario tipo provenienti «dall’altra parte»; incluse le seduzioni finanziarie: quando non proprio quello dell’arricchimento personale quello ad esempio di generosi «contributi» elettorali.
Ma questo passato è oggi svanito, ripeto. Oggi specialmente l’Europa occidentale e i suoi regimi democratici appaiono sostanzialmente indifesi davanti a un mondo esterno aggressivo e senza scrupoli il quale ha grandissimo interesse a piegare le nostre democrazie ai propri voleri. Innanzi tutto — come dimostra il caso della Cina — cancellando la nostra capacità di critica nei confronti delle molte ignominie che in esso si commettono. Indifesa appare in particolare l’Italia, con la sua porosità istituzionale, la sua classe politica perlopiù improvvisata, la sua classe dirigente priva in generale di un forte spirito nazionale e di una consistente moralità. Ormai ogni giorno esponenti a vario titolo del nostro Paese percorrono a frotte i Paesi delle tirannidi e del denaro — dalle regge del Golfo ai cremlini della Moscovia e dell’Asia centrale ed estrema — ritornandone, guarda caso, quasi sempre colmi di ammirazione. È permesso augurarsi che ci sia qualcuno in grado di dare un’occhiata discreta a quello che combinano?