Ora, pure, lo choc dell’ex Ilva. Al Sud serve sempre di più il binocolo per inquadrare un po’ di lavoro. I dati di Bankitalia riportati dal Sole 24 Ore sono più che eloquenti. Dei nuovi impieghi creati nel 2018, l’87% ha riguardato il Centro-Nord e il 13% il Sud. Nel Mezzogiorno solo 40mila posti in più, metà dei quali part-time. Ma il bello, ossia il brutto, è che non si comprende se gli incentivi all’occupazione abbiano fatto bene o abbiano fatto male al Sud, alla luce dell’esiguità del numero di assunzioni. Di certo, sostiene l’ultimo allarmante Rapporto Svimez, il reddito di cittadinanza allontana parecchio dal mercato del lavoro.
Per certi versi, fatte le dovute differenziazioni rispetto al passato, il Meridione sta messo peggio di 70 anni fa, quando la Cgil di Giuseppe Di Vittorio (1892-1957) lanciò il piano del lavoro, che poi voleva dire piano del lavoro al Sud. Il Meridione sta messo peggio perché 70 anni fa, la classe dirigente italiana, di governo e di opposizione, sapeva quello che voleva, e poi c’era una voglia di riscatto, dopo la tragedia della guerra, forse mai conosciuta nei secoli precedenti.
La classe politica odierna non sa neppure impedire la fuga dell’acciaio da Taranto.
Lo stesso piano del lavoro (1949) concepito da Di Vittorio aveva incontrato il sostanziale placet del presidente della Confindustria, Angelo Costa (1901-1976), di cui tutto si poteva dire tranne che fosse una colomba verso il sindacato e un tenerone nei confronti della sinistra.
Quel piano del lavoro rappresentava una sfida keynesiana tesa ad ammodernare il Paese soprattutto sul versante infratrutturale. Non ricevette, quel piano, una ratifica parlamentare. In compenso influenzò alcune scelte dei governi dc dell’epoca: dall’Ina-Casa (Fanfani) alla riforma agraria (Segni), fino alla nazionalizzazione dell’energia elettrica (Fanfani).
A rileggere la storia di quella fase politica che contribuì alla realizzazione del cosiddetto «miracolo economico» si rimane impressionati dalla solidarietà di fondo che univa protagonisti distanti, tra loro, anni luce per estrazione, militanza e ideologia politiche.
Di Vittorio e Costa sulla carta erano due tipi opposti, in teoria destinati a non incontrarsi mai. Invece fiorì una rinomata leggenda sui loro «faccia a faccia» ferroviari notturni per cercare soluzioni ai frequenti conflitti tra capitale e lavoro. Probabilmente, come ipotizzò Indro Montanelli (1909-2001), c’era molto romanzo sui rapporti tra il leader dei «padroni» e il capo delle «masse operaie», ma c’era anche un sostanziale pizzico di verità. Entrambi erano accomunati da un forte senso di responsabilità verso la nazione e da un altrettanto solido rispetto reciproco. Non a caso, quando Di Vittorio venne irreparabilmente fulminato dal terzo infarto, Costa non si limitò a un telegramma di circostanza: «Serbo di lui – disse – il ricordo di una controparte capace, onesta, siceramente legata agli interessi dei lavoratori. Abbiamo fatto insieme un buon lavoro nell’interesse del Paese».
Nei momenti decisivi, ecco il punto, personaggi come Alcide De Gasperi (1881-1954), il governatore di Bankitalia Donato Menichella (1896-1984), Costa e Di Vittorio si trovarono a marciare nella stessa direzione, pur provenendo da lidi diversi. Quella concertazione non dichiarata fu essenziale per la crescita del Paese, i cui balzi produttivi stupirono il resto del pianeta.
Ma che fosse fondamentale il ruolo di una classe dirigente all’altezza dei nuovi compiti, lo avvertì, come un radar il grande Menichella, di Biccari, anche lui della provincia foggiana, ma, doversamente da Di Vittorio, incredibilmente dimenticato. Eppure nel 1960, il Financial Times, non un giornaletto di quartiere, gli aveva assegnato il premio di miglior governatore centrale del globo.
Qualche settimana fa, il professor Beniamino A. Piccone, collaboratore della Gazzetta, ha scritto un articolo in cui, tra l’altro, chiede di ricordare con una targa e con un’iniziativa ad hoc, il grande servitore di Stato originario di Biccari. Nell’articolo, Piccone ha reso pubblica una lettera inviata da Menichella a Gabriele Pescatore (1916-2016), presidente della Cassa per il Mezzogiorno. «Quando ai primi del 1950 – sottolinea Menichella – io concepii l’indea della Cassa per il Mezzogiorno, la proposi al compianto amico Ezio Vanoni che con grande entusiasmo l’accettò e la portò a De Gasperi. Quando, nei giorni successivi, mi dedicai a redigere gli articoli della legge, una sola titubanza ebbi e un solo tormento mi afflisse: si sarebbero, in sede politica, scelti bene, gli uomini da porre alla testa del nuovo strumento? Nessuno strumento, per quanto ben concepito, può dare risultati utili se non è affidato a mani sapienti e a coscienze rette».
Menichella aveva intuito tutto. O si formava una classe dirigente adeguata, oppure anche il miglior provvedimento avrebbe collezionato più fiaschi di una cantina sociale. La pensava così anche Di Vittorio. Ecco le sue parole pronunciate a Genova, nel 1949, alla vigilia del lancio del Piano del lavoro, a proposito della criminalità organizzata che già scoraggiava gli investimenti al Sud: «L’unica spedizione militare che potrebbe riuscire a eliminare il banditismo e la mafia dovrebbe essere una spedizione di ingegneri e tecnici».
Invece, l’Intervento Straordinario, dopo i primi lustri di incorniciare, ha arruolato più faccendieri che ingegneri, sconfessando sia Menichella sia Di Vittorio che, nell’Aldilà, di fronte allo spettacolo delle attuali classi dirigenti, incolte e rapaci, di sicuro non stanno vivendo periodi tranquilli. I casi drammatici, come quello del siderurgico di Taranto, dipendono anche o soprattutto dal deficit di cultura politico-economica contro cui si battevano i Di Vittorio e i Menichella.
GIUSEPPE DE TOMASO
[ LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO ]