In un vecchio film di Mario Monicelli (Risate di gioia, 1960) Totò e Anna Magnani si ritrovano in un veglione di fine anno. La fatidica mezzanotte viene anticipata di un’ora dal truffaldino direttore dell’orchestrina per poter così suonare a un’altra festa. Quest’anno, in ossequio all’ultimo Dpcm, bisognerà anticipare almeno di due ore il conto alla rovescia di mezzanotte se abbiamo qualche parente in casa o se siamo a casa dei genitori o della vecchia zia sola. Entro le 22 bisogna rientrare per rispettare il coprifuoco.
Nel mondo perfido delle fiabe alla stessa Cenerentola erano state concesse due ore in più per andare alla festa dei suoi sogni. I fratelli Grimm, autori della favola, non sapevano niente di pandemia e Dpcm.
Tentiamo con l’ironia di superare la tristezza inevitabile che le prossime «feste» – termine più che mai paradossale – porterà nella vita di ciascuno.
È facile prevedere che nonostante i timidi addobbi per le strade, che dovrebbero dare un senso di normalità, assisteremo a scene tristissime, molto più dell’immagine livida del Papa in preghiera in una piazza San Pietro spettralmente deserta. Era il 27 marzo e s’era capito che la Pasqua imminente sarebbe stata molto diversa. A Natale nessuno aveva pensato, era così lontano. E invece no, eccoci di fronte a una pandemia che di nuovo ci sorprende e ci colpisce tutti, al di là dei contagi e dei morti.
In un articolo su Repubblica, Michela Marzano ha riassunto il senso del Natale che supera l’orizzonte religioso ed è diventato antropologico. «Le feste di Natale – scrive – sono anche e soprattutto un pezzo della nostra storia e della nostra identità, qualcosa che ci rammenta da dove veniamo e chi siamo».
E dunque riguarda tutti, credenti e non, grandi e bambini. Il senso del Natale è agli antipodi della pandemia: solidarietà, generosità, calore da una parte, solitudine, egoismo, sofferenza dall’altra. Le restrizioni che abbiamo subìto e in cui saremo ancora immersi a lungo sono un’istigazione all’individualismo, un colpo mortale al senso di socialità, alla naturale propensione umana a vivere in comunità.
La stessa malattia prevede come cura principale l’isolamento. In questo è davvero perversa, perché esclude ogni forma di compassione, di solidarietà, di affetto. Ci sono altre gravi malattie – pensiamo ai tumori o a quelle cardiologiche – che non impediscono il contatto umano, anzi spesso la vicinanza degli altri è di supporto alla terapia clinica. Il virus no, punisce chiunque si accosti al paziente, a cominciare da medici e infermieri, che non a caso abbiamo definito eroi. Il morbo reclama un corpo a corpo senza pietà con il contagiato. E quando si esce vincitori non si è più gli stessi, come raccontano tutti i guariti, al di là degli strascichi provocati dal contagio.
Anche il decantato smart working porta a una forma accentuata di isolamento.
Il lavoro non è soltanto algida produzione, è anch’esso influenzato dai rapporti che si creano nella fabbrica o nell’ufficio. Le forme di alienazione studiate negli anni ‘70 del secolo scorso e poi arginate con una serie di interventi di natura sindacale e imprenditoriale, oggi si ripresentano in maniera più subdola, con il lavoratore sempre più solo e separato dagli altri. Più un robot che un uomo. I rapporti sociali si stanno trasformando rapidamente in rapporti uomo-computer. Tutto accade online: dallo shopping allo studio, dal lavoro ai saluti. E quelle poche relazioni fisiche rimaste sono anch’esse mutilate, deformate, alterate dal Covid: non si può vedere un sorriso – per curiosità: è crollata la vendita dei rossetti – né ci si può stringere la mano o abbracciare. Il modello robot s’impone anche nel contesto fisico.
E tutto questo non può essere senza conseguenze. Per capire quanto la pandemia ci stia scavando dentro basta guardare al clima di solidarietà e comprensione durante la prima ondata, quando interi condomini si ritrovavano a cantare insieme, quando c’era chi suonava dai terrazzi e dai balconi, e il silenzio della seconda fase, con atteggiamenti egoistici sempre più marcati, innescati spesso dalla crisi economica.
La pandemia oltre a fare strage di vite, ha il malefico potere di esasperare e accelerare le situazioni: i ricchi diventano sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri, i soli sempre più soli. Non è un caso che mentre c’è chi è in coda alla Caritas o a un pronto soccorso c’è chi sta pensando a come aggirare i divieti e andare a sciare o a giocare al casinò. Intere categorie che fino a qualche mese fa vivevano agiatamente oggi rischiano di finire o sono già finite sul lastrico. Basti pensare ai commercianti, ai baristi, ai ristoratori. Con il paradosso che forse la piccola rosticceria nel bugigattolo sotto casa riesce a farcela, mentre il grande ristorante – a cominciare dagli stellati – deve chiudere, lasciando senza reddito decine di famiglie. E poi c’è tutto l’universo di persone che vivevano grazie al turismo. È chiaro che tutto questo finirà e che in qualche modo col vaccino o chissà come altro torneremo a vivere.
Ma oltre al sistema economico bisognerà pensare a ricostruire il sistema sociale, a ripristinare quei rapporti fra le persone che sono l’unica cosa per cui la vita merita d’essere vissuta. Se questo Natale sarà diverso, quello del 2021 forse lo sarà ancora di più, se avremo la capacità di apprezzare quanto ci perderemo.
MICHELE PARTIPILO
[ LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO ]