Un articolo di Alessandro De Nicola pubblicato su Repubblica il mese scorso aveva per qualche giorno riaperto il ciclico dibattito sulle cosiddette «quote rosa», il sistema che garantisce alle donne un numero minimo di posti – nelle liste elettorali, negli incarichi dirigenziali e professionali, fino agli incontri pubblici, eccetera – per compensare e cambiare una cultura che le penalizza, e più in generale sull’efficacia e giustificazione dei cosiddetti meccanismi di discriminazione positiva nelle società di tutto il mondo.
Come per molti temi complessi, esistono logiche argomentazioni da entrambe le parti: sia da parte di chi sostiene le quote per qualsiasi categoria discriminata, sia di chi le ritiene sbagliate. Nelle loro forme più benintenzionate e riflettute (trascuriamo quelle ignoranti e superficiali), i due approcci si possono riassumere in questo modo: c’è chi crede che le società vadano migliorate rifiutando di accettare e “avallare” lo stato di fatto discriminatorio ed educando a una cultura dell’uguaglianza senza deroghe o eccezioni, per ottenere progressi successivi e a lungo termine; e chi ritiene che invece questi progressi si possano ottenere solo con delle forzature e delle compensazioni che impongano il giusto cambiamento: a costo di introdurre discriminazioni opposte, per evitare che lo stato di cose lavori per autoconservarsi. Volendo, è un’alternativa che ricade dentro quella più generale tra educazione e repressione nelle nostre società.
All’interno della categoria dei volenterosi benintenzionati – le persone che pensano che ci siano discriminazioni, che vadano eliminate, e che questa sia una priorità – il secondo approccio è stato per molto tempo più frequentato. Le cosiddette “quote rosa” in politica sono nate fra gli anni Settanta e Ottanta, a fronte del cronico dominio negli uomini degli incarichi politici e dell’altrettanto cronica sotto-rappresentazione delle donne negli organi elettivi, sempre meno sopportata al crescere delle sensibilità sui diritti civili e grazie al consolidamento globale della democrazia (ancora oggi l’Italia ha avuto solo maschi a capo del governo o dello Stato, per esempio).
Nel 1975 in tutto il mondo soltanto un parlamentare su dieci era una donna, a fronte di una sostanziale parità della popolazione mondiale fra uomini e donne. Le «quote rosa» si diffusero prima nei paesi scandinavi e successivamente un po’ in tutto l’Occidente, e in diverse nazioni in Sudamerica e Africa. Nelle dirigenze delle aziende le “quote rosa” sono arrivate più tardi, a partire dagli anni Duemila, e finora si sono diffuse soprattutto in Europa.
In Italia le “quote rosa” sono argomento di discussione da diversi anni, ma sono state regolate di recente: la legge elettorale con cui si vota il Parlamento ha previsto soltanto nel 2017 norme che proteggano la rappresentanza delle donne – cioè l’alternanza uomo-donna nelle liste elettorali e il limite massimo del 60 per cento per un genere – mentre quelle per le elezioni regionali ed europee erano state aggiornate rispettivamente nel 2016 e nel 2014.
Per quanto riguarda le aziende, invece, già dal 2012 è in vigore la legge Golfo-Mosca, che obbliga le società quotate in borsa a riservare il 30 per cento dei posti nei consigli di amministrazione alle donne (dal 2012 al 2015 la quota fu del 20 per cento, per consentire un incremento graduale). Anche questo ha portato a un largo aumento del numero di donne nei consigli di amministrazione delle aziende italiane quotate.
All’estero le quote non riguardano soltanto le donne ma anche le minoranze etniche o sociali con una storia di discriminazioni ed emarginazione. Il più antico meccanismo che garantisce quote politiche per le minoranze è quello indiano: fu approvato nel 1950 per provare a rompere il rigido sistema delle caste e le discriminazioni nei confronti dei paria, i cosiddetti “intoccabili”, e ancora oggi regola l’accesso a diversi settori fra cui l’università, la burocrazia e il Parlamento. Più di recente, nel 2012 il governo brasiliano decise di riservare il 50 per cento dei posti da studente nelle università pubbliche a ragazzi di etnia indigena oppure di origini africane, per riequilibrare una storica sotto-rappresentazione delle minoranze etniche nelle élite di potere occupate quasi interamente da bianchi (quella brasiliana è considerata una delle società più diseguali al mondo).
Il caso più famoso e discusso di quote riguarda gli Stati Uniti e si chiama affirmative action: fu introdotta negli anni Sessanta dalle amministrazioni Democratiche di John F. Kennedy e Lyndon Johnson, e presentata come «una forma di risarcimento per la discriminazione subita in passato, un trasferimento di opportunità dalla classe dominante alla minoranza emarginata», come ha ricordato il New Yorker in un articolo del 2017. La misura obbligava tutte le università a creare una corsia preferenziale per gli studenti che appartenessero alle minoranze etniche, cioè soprattutto gli afroamericani, per permettere un accesso più equo all’educazione di alto livello e inserire gradualmente persone diverse dai bianchi – che erano state segregate e schiavizzate per secoli – nella classe dirigente del paese. La schiavitù e il razzismo avevano lasciato tracce così pesanti e visibili, da ogni punto di vista, che secondo i proponenti di queste norme le discriminazioni negative dovevano essere attenuate e corrette con discriminazioni “positive”, altrimenti sarebbero state destinate a riprodursi.
Negli anni l’affirmative action è stata messa in discussione più volte, esaminata dalla Corte Suprema, bandita in otto stati, estesa al football americano, nonché dibattuta dai principali editorialisti e sociologi del paese; è un buon punto di partenza, insomma, per capire le ragioni per cui i vari meccanismi di quote hanno subito critiche così estese in tempi più recenti.
La prima ragione è piuttosto intuitiva: accettare la discriminazione positiva vuol dire accettare che esistano casi in cui, a parità di condizioni, uno studente bianco con le stesse competenze e talenti di uno studente afroamericano sia penalizzato per lasciare spazio a quest’ultimo. È chiaro il motivo per cui accade – la parità non è una vera parità, vista la diversa difficoltà per i due ragazzi di arrivare alla medesima condizione – ma è comunque un paradosso: per ottenere una società più giusta, viene introdotto un criterio ingiusto.
Ci sono altre ragioni, più sottili, portate da chi sostiene che l’affirmative action sia dannosa. Alcuni ipotizzano che possa premiare soltanto alcune minoranze e penalizzarne altre. Nel 2015 l’università di Harvard fu accusata di discriminare gli studenti americani di origine asiatica. Sulla carta era una critica infondata: nel 2013 il corpo studentesco della prestigiosa università privata di Boston era formato per il 18 per cento da americani di origini asiatiche, nonostante nel paese rappresentassero il 5 per cento della popolazione. In realtà probabilmente sarebbero dovuti essere ancora di più: al California Institute of Technology, un’università che non applica i criteri della affirmative action e accetta gli studenti solo su criteri di merito (e di retta), erano americani di origine asiatica il 43 per cento degli studenti.
In altre parole, significa che le quote imposte per proteggere alcune minoranze ne avevano inevitabilmente danneggiate altre. Anche Alessandro De Nicola, nel recente articolo pubblicato da Repubblica, sembra alludere a casi del genere quando sostiene che – per assurdo – per limitare al minimo gli incidenti di questo tipo «bisognerebbe fare classifiche che tengano conto di tutte le minoranze e di tutti coloro i quali asseriscono di esserlo: etnia, religione, orientamento sessuale, aspetto fisico».
Altri ancora sostengono che la affirmative action, formalizzando e facendo proprie le differenze etniche, contribuisca a cementare le divisioni già presenti nella società: nel 1996 due studenti dell’università di Stanford segnalavano sul giornale scolastico che negli anni si erano creati, fra le altre cose, dei «dormitori segregati, programmi segregati per l’orientamento delle matricole e feste di laurea segregate». Negli Stati Uniti, fra l’altro, è in corso da anni un dibattito sull’opportunità e i rischi della cosiddetta identity politics, cioè quella strategia di consenso e di governo che si rivolge a singole comunità con argomenti identitari – etnici, di genere, di orientamento sessuale – e che secondo alcuni alimenta la frammentazione della società e del dibattito politico.
Alcune critiche ricordano anche quelle che hanno ricevuto le cosiddette “quote rosa” nel dibattito italiano. Tre anni fa le sindache di Roma e Torino Virginia Raggi e Chiara Appendino, entrambe elette col Movimento 5 Stelle, criticarono il meccanismo delle “quote rosa” a distanza di pochi giorni: Raggi disse che le ricordavano le «riserve per i panda», e più in generale le definì un meccanismo che «offende proprio le donne e le confina in una visione un po’ anacronistica», cioè quella della donna-da-proteggere. È una critica che viene avanzata da anni anche da alcune femministe: qualche anno fa la scrittrice e giornalista Lea Melandri disse all’Espresso che le “quote rosa” nascono «dall’idea della donna come di una minoranza da difendere e rappresentare. Io voglio e sostengo la necessità di una presenza femminile più consistente nelle istituzioni: ma non è con le bandierine del 50-50 che la otterremo».
La maggiore critica femminista alle quote riguarda il paternalismo dell’imposizione dall’alto, la cooptazione: non dovrebbe essere lo stesso sistema che discrimina a porre rimedio alla discriminazione attraverso un meccanismo artificioso e ancora una volta imposto, ma un cambiamento dal basso e condiviso. In più, dicono queste critiche, creare una maggiore partecipazione delle donne è un’operazione culturale in assenza della quale si rischia di dare spazio solo a “donne in quanto donne”. Operazione culturale che più in generale dovrebbe ripensare tutto il maschiocentrismo dei sistemi di potere: altrimenti staremmo solo parlando di permettere alle donne di avere più spazio in una cultura e delle strutture scelte e create dagli uomini. La scrittrice e giornalista Ida Dominijanni ha chiamato queste operazioni “pattume paritario” accusandole di assoggettare le donne a uno spazio pubblico che le omologa invece che cambiare e accettare la diversità.
Ma tornando all’efficacia almeno quantitativa delle quote, negli anni il dibattito si è sviluppato molto, e alcune posizioni di chi invece sostiene la necessità dei meccanismi di quote hanno assorbito parte delle critiche ed elaborato alcune risposte. In un articolo pubblicato nel 2018 sul New York Times, il filosofo americano Gary Gutting ha ammesso che il rischio di generare discriminazioni opposte era un argomento molto «potente» per opporsi alle quote, ma ha aggiunto che in molti hanno fatto un passo oltre. Data per assodata l’ingiustizia intrinseca di un criterio del genere, «qual è l’obiettivo finale di premiare chi fa parte di una minoranza?». In altre parole: i torti subiti da alcuni gruppi etnici o sociali sono ancora così radicati da giustificare una ingiustizia per sanarli?
Per Gutting e molti altri la risposta è sì. Rimanendo all’esempio dell’affirmative action, ancora oggi gli afroamericani hanno uno svantaggio tale in ambio socio-economico rispetto ai bianchi che solo il 6 per cento di loro frequenta le migliori scuole del paese, nonostante siano il 12 per cento della popolazione totale (e la stima di chi frequenta le scuole di alto livello è rimasta praticamente invariata dagli anni Ottanta a oggi). Si può usare un argomento simile per rispondere alla tesi delle colpe dei padri che non possono ricadere sui figli, scrive Gutting:
«Conosciamo bene gli orrori della schiavitù e delle leggi razziali, ma come possiamo legarle alla pagella molto buona ma non eccellente di un ragazzo afroamericano nato nella classe media, che magari non è nemmeno tagliato per fare Harvard? Il legame, come ha lasciato intendere in un’occasione anche la giudice della Corte Suprema americana Sonia Sotomayor, sta nei residui contemporanei degli effetti strutturali di secoli di discriminazione, che stanno via via scomparendo ma rimangono un peso che i ragazzi di oggi non si meritano»
Nel caso del dibattito italiano sulle “quote rosa” la tesi dei favorevoli è simile, fatte le dovute proporzioni (e tenuto conto che le donne non sono numericamente una minoranza nella società italiana, anzi): le donne sono state talmente discriminate nei secoli scorsi, e lo sono tuttora, che una forzatura nell’altra direzione è necessaria per provare a bilanciare i diritti che sono stati negati finora. Con un passaggio in più: a differenza di certi paesi in cui i partiti politici hanno accettato di autoimporsi delle quote – in Israele lo fanno i due principali partiti del centrosinistra – «chiunque abbia un po’ di esperienza della politica italiana sa che senza un minimo riferimento alle quote, in Parlamento avremmo solo maschi sessantacinquenni», ha raccontato la giornalista Flavia Perina al Foglio.
Fino al 2018 l’Italia ha avuto meno di 100 ministre donna su un totale di 1.500: circa metà delle quali, peraltro, guidavano ministeri senza portafoglio. Nel governo di Matteo Renzi del 2014 le donne ministre erano 8 – metà del totale, un caso eccezionale – ma già dopo meno di due anni erano meno di un terzo, 5 su 16, e nel primo governo di Giuseppe Conte sostenuto dalla Lega e dal Movimento 5 Stelle erano ancora meno, 5 su 18. Sempre al Foglio, in una raccolta di pareri curata da Simonetta Sciandivasci, la scrittrice Chiara Valerio aveva invitato a trattare la questione con maggiore concretezza rispetto alla logica della «purezza» dei meccanismi di reclutamento della società:
«La democrazia non è qualcosa di naturale, l’abbiamo inventata e dobbiamo, in qualche modo, garantirla. Penso dunque che qualsiasi strumento riequilibri la presenza nelle istituzioni del numero delle donne, rispetto a quello degli uomini, sia necessario. E non per questioni di genere, di campanile, di rivincita o di giustizia. Per una faccenda logica, e statistica. Perché l’immagine di un’Italia, piena di donne, deve essere ridotta, in certe sue istituzioni, all’immagine di un’Italia dove le donne sono poche e rare?»
Infine, si racconta raramente che il meccanismo delle quote banalmente funziona, almeno secondo due parametri: aiuta a rendere una società più rappresentativa delle persone che la compongono, e a dare una possibilità a chi altrimenti non la otterrebbe a causa del contesto socio-economico in cui è cresciuto.
Per quanto riguarda la rappresentatività, le “quote rosa” previste dalla legge elettorale italiana del 2017 hanno prodotto il numero di donne più alto mai registrato in Parlamento: nei giorni dell’insediamento della nuova legislatura erano 334, il 35 per cento del totale, contro le 299 della legislatura precedente. Nella legislatura precedente era stata eletta in Parlamento una donna ogni 103mila abitanti donne; in quella attuale il rapporto è diminuito a una ogni 93mila (rapporto per gli uomini: uno a 42mila abitanti uomini nella scorsa legislatura, uno a 48mila in quella attuale).
È ancora migliore il dato delle donne assunte nei cda delle aziende per via della legge Golfo-Mosca, come ammette lo stesso De Nicola: «Non solo le donne rappresentano il 36,4 per cento dei cda italiani, ma la percentuale è superiore a quella degli altri paesi europei».
In entrambi i casi, parliamo di percentuali intorno al 30 per cento: quindi di casi in cui le quote non solo non hanno creato distorsioni opposte – le donne non sono più rappresentate degli uomini – ma si sono limitate a correggere distorsioni che esistono ancora, visto che le donne sono la maggioranza della popolazione.
L’obiezione che i diffidenti delle quote fanno a questi risultati, e quindi anche alla palese efficacia del sistema, è che questi equilibri possano andare a scapito della qualità dei risultati e premiare individui meno qualificati: è un’obiezione che però ritiene che la correzione di un’ingiustizia secolare, scandalosa e che discrimina la metà della popolazione non sia la priorità maggiore in una società civile. E che non ha necessariamente fondamento: fra gli esempi dei successi delle quote nel dare possibilità a chi non ce le aveva c’è quella applicata dalla prestigiosa università francese Sciences Po.
Il Guardian ha raccontato che nel 2011 un gruppo di esperti decise di seguire 860 diplomati che erano stati ammessi fra il 2006 e il 2011 con una corsia preferenziale che aveva premiato gli studenti migliori delle peggiori scuole del paese: lo studio rivelò che i risultati successivi degli 860 studenti erano sostanzialmente uguali a quelli degli altri, provenienti da contesti privilegiati.
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