La maggior parte dei mari del mondo soffre di qualche forma di problema ambientale, ma pochi si sono deteriorati velocemente e qualitativamente come l’estremità orientale del Mediterraneo. Nonostante abbia dato vita ad alcune delle più grandi civiltà della storia, il Mediterraneo orientale è diventato un triste simbolo degli attuali fallimenti degli stati litoranei. In quei luoghi dai quali gli antenati salpavano, molti oggi gettano rifiuti industriali. Le conquiste, tra gli altri, di greci, fenici, romani ed egizi dell’età dei faraoni non fanno altro che evidenziare la decadenza politica ed economica dei loro discendenti.
Negli ultimi anni il Mediterraneo orientale è diventato in un certo senso il palcoscenico nel quale salvare o distruggere, una volta per tutte, il mare: “ora o mai più”. Ingenti e nuove scoperte di gas al largo delle coste hanno messo i paesi che si affacciano sulle sue coste gli uni contro gli altri, nel tentativo di accaparrarsi una parte delle risorse. Il riaccendersi di giochi di potere strategici, in particolare a proposito della Siria, hanno trasformato ancor di più il mare in un campo di battaglia geopolitico. In alcune sue parti, navi da guerra e aerei militari provenienti da luoghi lontani come il Pakistan attraversano furtivi le sue acque.
Mentre buona parte dell’Europa si preoccupa dei flussi migratori provenienti dal confine meridionale del continente, aumentano più che mai anche gli ostacoli alla ricerca di una soluzione per i mali ambientali del Mediterraneo orientale.
Caldo e soffocato dalla plastica
Allo stato attuale la situazione è molto preoccupante. Il Mediterraneo si sta scaldando a uno dei ritmi più rapidi al mondo (fino a 0,12 gradi all’anno, in superficie) ed è soffocato dalla plastica. Nonostante il Mediterraneo è pari ad appena l’1 per cento degli oceani del mondo, contiene il 7 per cento delle sue microplastiche. Gli stati costieri continuano a riversare in mare tonnellate di materiali, dagli oli industriali ai rifiuti fognari non trattati, il che significa che non esiste praticamente più un ecosistema intatto (qualcosa di simile accade sulla terraferma: basi navali affiancano spiagge ricoperte d’immondizia e discariche sulla costa, mentre a bilanci militari relativamente elevati si accompagnano ministeri dell’ambiente privi di fondi).
Per i milioni di persone che dipendono dal Mediterraneo per il proprio posto di lavoro, e per i molti milioni di altri che lo considerano un “polmone blu” di una regione dove spesso il caldo è soffocante e le città sono claustrofobiche, le battaglie del mare rischiano di diventare anche le loro.
Ma potrebbe esserci un sottotesto ancora più importante nel declino del Mediterraneo orientale. Per millenni le persone che vivevano vicino a esso prosperarono grazie agli scambi reciproci, commerciando costantemente e spesso cooperando da una costa all’altra, creando alcune delle più grandi civiltà della storia mondiale. Ma questo succedeva molto tempo fa, e il declino intellettuale della regione è specchio della sua decadenza ambientale. Schiacciato dall’unilateralismo, dall’avidità e da una cronica miopia politica, il più grande mare dell’antichità somiglia al mondo contemporaneo in miniatura. Con i negoziati sul clima delle Nazioni Unite di quest’anno appena conclusi a Madrid con pochi risultati concreti, le lezioni offerte dal Mediterraneo orientale non autorizzano un particolare ottimismo.
“Sono tornato nel Mediterraneo dopo trent’anni e ho il cuore spezzato”, mi dice Gaetano Leone, napoletano di nascita e oggi direttore della segreteria del Piano d’azione per il Mediterraneo del programma ambientale delle Nazioni Unite (Unep/Map). “Torneremo mai a quel Mediterraneo azzurro che ospitava i pesci migliori e spiagge intatte? Non so se riusciremo a tornare a questa immagine romantica e ideale”.
Alcuni dei problemi del Mediterraneo sono dovuti alla sua insolita topografia. Avendo pochi sbocchi verso l’esterno, occorrono circa cento anni perché una goccia d’acqua esca da questo mare. La diluizione delle tossine è quindi ridotta, e dal momento che alcune delle sue correnti più forti si muovono da occidente a oriente, il Mediterraneo orientale paga il prezzo delle cattive pratiche di tutto il bacino. Ma questa è solo una parte della storia.
Una preoccupazione lontana
La guerra lo ha ferito in modi più o meno gravi. Più di recente, in Siria, gli oleodotti sotterranei del terminal petrolifero di Baniyas sono stati sabotati, il che ha provocato la dispersione di greggio verso le coste vicine e oltre, mentre gli impianti di trattamento delle acque reflue di Gaza, danneggiati dalle bombe, continuano a sversare rifiuti non trattati nei fondali. Come sempre accade in tempo di guerra, l’ambiente tende a diventare una preoccupazione lontana.
Anni di disfunzioni economiche e politiche hanno inoltre lasciato un segno preoccupante. Impantanate in crisi finanziarie di varia gravità, in alcune parti dell’Africa del nord, dell’Europa del sud e del vicino oriente la protezione del mare è diventata una priorità sempre meno urgente. La Grecia è uno dei tanti paesi che, nella sua corsa agli investimenti, hanno trascurato alcune delle migliori pratiche ambientali. “Durante gli anni di crisi, abbiamo cercato di spremere al massimo le nostre coste”, mi racconta Dimitris Ibrahim, un funzionario della programmazione marina del Wwf in Grecia. “Non accade solo in Grecia, naturalmente, ma si è diffusa una retorica secondo cui la protezione dell’ambiente è un freno alla crescita. Alcune persone dicono: ‘Voglio che la prossima generazione possa godere di un ecosistema sano, ma devo anche dare da mangiare ai miei figli’”.
Oggi abbiamo mille specie aliene. È come se ci fosse un altro Mediterraneo nel Mediterraneo
E quando gli stati non riescono a coordinarsi per periodi di tempo lunghi, come è spesso accaduto nel Mediterraneo orientale, ci sono conseguenze impreviste. Il canale di Suez, per esempio, ha facilitato il passaggio di specie invasive aggressive dal mar Rosso, molte delle quali, come l’appuntito pesce scorpione, hanno gettato scompiglio e decimato le riserve ittiche locali. I problemi non hanno fatto che peggiorare con l’allargamento del canale nel 2014, che a quanto pare è stato realizzato dall’Egitto preoccupandosi pochissimo dell’impatto ambientale che avrebbe avuto altrove. “La situazione è pessima. Davvero pessima”, mi dice Bayram Öztürk, fondatore e direttore della fondazione di ricerca marina turca. “Oggi abbiamo mille specie aliene nel Mediterraneo. È come se ci fosse un altro Mediterraneo nel Mediterraneo”.
Ma questi potrebbero essere in realtà i problemi più risolvibili. Il deterioramento del Mediterraneo orientale, soprattutto di recente, è anche il risultato di un mondo che appare più incapace che mai di rinunciare a guadagni economici a breve termine, nonostante le sue ferite ambientali peggiorino di giorno in giorno. Nell’ultimo decennio, imponenti scoperte d’idrocarburi hanno scatenato una corsa alle risorse sottomarine, con paesi come Egitto, Israele, Cipro e Grecia che si sono mossi per sfruttare i loro ritrovamenti.
Questo zelo estrattivo degli stati alimenta, a ragione, il timore di riversamenti in mare tra gli ambientalisti. Quando una petroliera è affondata vicino ad Atene due anni fa, le autorità, poco equipaggiate, hanno faticato a contenere le perdite nonostante le perfette condizioni atmosferiche e la vicinanza con la capitale, racconta Ibrahim del Wwf. Se dovesse accadere qualcosa vicino a uno dei principali giacimenti isolati, l’impatto potrebbe essere catastrofico.
Gli ambientalisti sono preoccupati anche per la biodiversità del Mediterraneo, buona parte della quale sta rapidamente scomparendo, man mano che petroliere, trivelle e l’incessante inquinamento si appropriano degli habitat naturali. Molte tartarughe marine sono arrivate morte sulle coste israeliane in circostanze che i funzionari locali ritengono legate alle esplosioni sottomarine. Analogamente, in Grecia, la combinazione di aumento del traffico marino da e per il canale di Suez e di rumoroso sfruttamento sotterraneo dell’energia sta uccidendo o allontanando capodogli e zifio sensibili agli ultrasuoni. Questi effetti negativi non potranno che accelerarsi se saranno approvati importanti infrastrutture come i gasdotti, nel tentativo dell’Unione europea di liberarsi della sua dipendenza dalla Russia.
Una polveriera
Ma più di tutto ambientalisti e funzionari temono che la decisa espansione navale che aumenta lo sfruttamento dei giacimenti di gas faccia scomparire ogni preoccupazione ambientale, trasformando al contempo la regione ancor di più in una polveriera. La Turchia è diventata una potente presenza marittima, che porta avanti una strategia che molti dei suoi vicini considerano un tentativo di dominare la porzione orientale del Mediterraneo. Anche Egitto e Israele hanno rafforzato i loro effettivi, in parte per sorvegliare i loro impianti di gas. La Russia ha di recente condotto la sua principale esercitazione navale nel Mediterraneo dai tempi della guerra fredda, proprio mentre gli Stati Uniti aumentano le loro operazioni in una regione che per anni hanno trattato come qualcosa d’irrilevante. Sembra che perfino l’Iran e la Cina stiano mostrando i muscoli. Il primo ha ottenuto una parte del porto di Latakia, in Siria. La seconda ha investito pesantemente nella regione e controlla una serie di importanti porti mediterranei, tra cui il Pireo.
Anche se le possibilità sono poche, la minaccia di scontri è stata sufficiente a congelare la cooperazione transfrontaliera. Attivisti ecologisti delle aree turca e greca di Cipro hanno dovuto agire con estrema prudenza adesso che la Turchia, che occupa la parte settentrionale dell’isola, conduce le sue ricerche di gas in acque che la comunità internazionale non riconosce come sue.
I loro colleghi in Egitto, Libia e oltre riferiscono di una crescente intimidazione da parte dello stato. Mentre la regione si divide in nuove e variabili alleanze, con Egitto, Israele, Grecia e Cipro da una parte, e adesso Turchia e Libia dall’altra, gli sforzi di preservazione ambientale diventano sempre meno una priorità politica. “Siamo arrivati a questa situazione a causa di una pessima amministrazione, degli interventi politici e naturalmente della corruzione, e tutto questo penalizza il Mediterraneo”, ha dichiarato in un’intervista il ministro dell’ambiente libanese, Fadi Jreissati. “Per dirla in parole semplici, la politica sta uccidendo la natura”.
I mari possono subire gravi maltrattamenti senza darne segno, e questo potrebbe essere parte del problema. La maggior parte del Mediterraneo orientale si presenta ancora con un tale splendore che non è difficile per un osservatore casuale ignorarne i gravi problemi. Ma non manterrà quest’apparenza per molto tempo. A causa dei cambiamenti climatici e della rapida crescita della popolazione, i problemi non potranno che accelerarsi e inasprirsi. “Ogni anno le tempeste si fanno più violente e imprevedibili”, mi spiega Dimitris Achladotis, un pescatore della remota isola greca di Kastellorizo. “Non c’è più niente di normale ormai”.
Ci sono chiaramente alcuni punti da cui partire. In primo luogo gli stati non possono dedicarsi da soli alla salvaguardia dell’ambiente, per quante scarse possano essere le relazioni tra loro. Il Mediterraneo orientale è troppo piccolo e troppo interconnesso per permettere azioni unilaterali. I suoi paesi hanno tutti avuto un ruolo nell’inquinamento delle acque. Dovranno collaborare per risolvere le cose.
Appare inoltre chiaro che, per un rapido cambiamento, non si può fare affidamento né sui governi regionali né sulla società civile, anche se tutti decidessero di cooperare. Per dare un’idea di quanto poco la maggior parte degli stati si stia dando da fare per la crisi, basti pensare che il Libano, forse in proporzione il paese più inquinante del Mediterraneo, fornisce al suo ministero dell’ambiente un bilancio annuale di appena nove milioni di dollari.
La maggior parte delle ong e delle istituzioni sovraregionali hanno troppo poche risorse, sono troppo intimidite dai loro stati d’origine spesso autoritari, o troppo prive di potere, in un’epoca nella quale molte di queste questioni non sono nei radar delle autorità ufficiali. “Possiamo fare un sacco di rumore. Possiamo stare col fiato sul collo delle autorità, ma se le persone non ascoltano c’è un limite a quel che possiamo ottenere”, ha sostenuto Asaf Ariel, responsabile scientifico presso EcoOcean, un’ong israeliana, in un’intervista.
Gli interessi commerciali potrebbero rappresentare la carta migliore del Mediterraneo, ma non nella forma di petrolio o gas. Più di duecento milioni di turisti affollano ogni anno le coste di questo mare, e c’è un limite alla quantità di rifiuti sulle spiagge, ai problemi legati alla scarsa qualità dell’acqua, o ai banchi di meduse che i visitatori possono tollerare. Se, o più probabilmente quando, il peggioramento delle condizioni comincerà a danneggiare in profondità le attività turistiche, le conseguenze saranno gravi. Le economie del Mediterraneo sono troppo fragili per sostenere colpi che possono mandare al tappeto uno dei suoi principali settori economici. I governi, sostengono i residenti, non potranno fare altro che agire, indipendentemente dai sentimenti che provano gli uni nei confronti degli altri.
“Se non puoi nuotare, che senso ha venire qui?”, mi dice Margarita Kannis, consigliera comunale locale e ambientalista di Kastellorizo. “In questa parte del mondo è turismo o niente”.
(Traduzione di Federico Ferrone)
Questo articolo è uscito su The Atlantic. Leggi la versione originale. © 2019. Tutti i diritti riservati. Distribuito da Tribune Content Agency.