Una domanda in cerca di risposte fa capolino in molte riflessioni scritte ed orali: la pandemia ci migliorerà o ci peggiorerà? Il quesito è piuttosto arrembante in Italia, nazione in cui lo Stato non si fida dei cittadini e i cittadini non si fidano dello Stato. E quando una comunità nazionale è attraversata, in lungo e in largo, dal morbo del sospetto endemico e dal virus della diffidenza reciproca c’è poco da sperare per costruire o ricostruire. Per crescere o riprendere a crescere, come succede nelle imprese, il lievito più salutare si chiama visione condivisa.
Come al solito, specie nelle fasi di criticità, tutto si riduce a una questione di spazi e di potere. Le emergenze spingono i governi ad allargare il proprio raggio d’azione. I cittadini dapprima accettano di buon grado il manto protettivo, con le relative prescrizioni, dei governanti, ma presto, spesso istintivamente, cominciano a sgomitare per riguadagnare i margini di libertà perduta, a iniziare dalla libertà di movimento e circolazione. Gli stati autocratici hanno buon gioco nel richiamare e nel riportare all’ordine i propri cittadini. Ma per loro è più facile: più che persone fornite di diritti non negoziabili, i loro cittadini sono sudditi adusi a obbedire perinde ac cadaver, come direbbero i gesuiti.
Le democrazie, ma soprattutto le società libere, no. Loro incontrano più difficoltà nell’attività di governo e di indirizzo, anche perché una nazione libera non punta, anzi non deve puntare, a obbligare all’ordine i propri cittadini. Anzi. Se così facesse, essa non meriterebbe la definizione di società libera. Una società libera si distingue da una società guidata proprio perché caratterizzata da una certa quantità di disordine, se non di caos. Il che, se non genera l’assoluta ingovernabilità, non frena la produttività e l’efficienza, semmai costituisce la spia più infallibile di una meritoria, acclarata creatività. Anche il cimitero è un posto d’ordine, ma resta pur sempre un cimitero. Anche la caserma è un luogo d’ordine, ma spesso colà al massimo di disciplina corrisponde il minimo di efficienza.
Lo stato invoca rispetto da parte dei cittadini. Ma anche i cittadini, specie quelli che non rigettano il principio di responsabilità e il carico dell’identità personale, esigono e meritano rispetto da parte dello stato. Altrimenti i colpi bassi (vicendevoli) rimbalzano a oltranza.
Lo stato non può pensare di regolare la vita dei cittadini in ogni minimo dettaglio, non fosse altro perché, per citare la nota battuta del filosofo austriaco Ludwig Wittgeinstein (1889-1951), «il diavolo si nasconde proprio nel dettaglio». Uno stato-mamma o, se si preferisce, uno stato-padre non genera buoni figli. Un po’ li abitua alla protezione continua. Un po’ li induce all’irresponsabilità individuale. Un po’ li spinge al sotterfugio perpetuo. Un po’ li porta all’immaturità permanente. Di sicuro, uno stato invadente e ossessivo non agevola la crescita personale, morale, culturale, economica e antropologica della sua gente.
Molto meglio sollecitare e solleticare l’autocontrollo e l’autodisciplina dei propri cittadini, piuttosto che ricorrere a diktat o a sanzioni fuori misura. Anche perché nulla eccita, scatena gli italiani più dell’elusione delle regole, nemmeno un gol segnato al novantesimo dalla squadra del cuore. E più le regole sono minuziose, pesanti e pervasive, più aumenta il tasso di libidine nella manovra di aggiramento dei divieti. Del resto, dire che agli italiani (non a tutti, si capisce) fa difetto quella virtù civile chiamata senso civico, equivale a dire che si è scoperta l’acqua calda.
Ma, dicevamo, pure chi governa nutre un pregiudizio sistemico nei confronti di chi è governato, e non da oggi. In fondo, se l’Italia è contemporaneamente, il Paese più regolato e più sregolato più del pianeta, qualcosa vorrà significare. Nasce da questa constatazione la convinzione che non ci sia molto da fare e che gli italiani siano, quasi geneticamente, più ingovernabili di una squadra di calcio formata tutta da primedonne.
È questione di regole, ma pure no. Si sa: cattive regole non producono gravi danni se governati e amministrati sanno autocontenersi, Al contrario, buone regole non producono buoni risultati se i loro destinatari non brillano per senso civico e spirito di collaborazione.
Un padre della patria come il piemontese Giovanni Giolitti (1842-1928), che conosceva l’Italia come i suoi tipici gilet, diceva che ogni governo è il portatore di secoli di storia e che nel legiferare deve tener conto delle condizioni di un Paese: «Il sarto che ha da vestire un gobbo, se non tiene conto della gobba non riesce».
Ciò significa rinunciare all’attività di governo, in Italia? Per niente. Ma così come in economia la pianificazione assoluta blocca la produzione legale e alimenta il mercato nero delle merci, anche nella sfera comportamentale la pianificazione capillare di direttive e costrizioni varie favorisce, da parte dei cittadini, reazioni opposte a quelle desiderate.
Noi italiani (purtroppo o per fortuna?) siamo fatti così, ma anche il resto del mondo, cioè l’umanità intera, ci somiglia molto.
GIUSEPPE DE TOMASO
[ LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO ]