giovedì, 28 Novembre 2024

Craxi e i sette nani

Marcello Veneziani

“Ho fatto tutto di corsa in una specie di frenesia che mi bruciava l’animo. Ho così commesso anche molti errori. E tuttavia, quello che io penso è che nella mia vita ho reso grandi servigi all’Italia. La storia, se non sarà scritta da storici di regime, dirà quanto questo è vero. Certo non merito di essere condannato a morire lontano dal mio Paese”. Con questo lapidario giudizio, quasi testamentario, Bettino Craxi rispose a una mia domanda se fosse pentito dei suoi errori e fosse tentato di tornare in Italia. A ripensarci oggi sorge una strana nostalgia per l’orco. Acuita non solo dall’anniversario, il ventennale della sua morte da esule brigante in Tunisia. E non solo dal bel film di Gianni Amelio e Agostino Saccà dedicato a lui, con un Favino che sembra davvero Bettino; un film che pare ispirato da sua figlia Stefania, vera coprotagonista del film. Ma reso ancora più acuto dal paragone con la miseria della classe di governo presente. Le monetine al Raphael furono una piccola Piazzale Loreto, incruenta ma avvilente.

Craxi non fu mai popolare, non ebbe mai consensi maggioritari, non faceva molto per rendersi simpatico. Fu burbero anche con “gli intellettuali dei miei stivali”. Ma aveva il senso della Grande Politica e della storia. Quando lo intervistai (con risposte scritte), nel dicembre del ’97 per il settimanale che allora dirigevo, Craxi era ricoverato al Policnico Taoufik di Tunisi. Era già un Craxi postumo, ragionava col distacco della storia. Aveva un piede, non per modo di dire, già nella fossa. Temeva per l’Italia, riteneva il bipolarismo “un’offesa alla democrazia e una rappresentazione falsa della reale società politica”. Riteneva gli italiani in prevalenza di centro-destra. Agrodolce era il suo giudizio su Berlusconi. Reputava D’Alema il politico caratterialmente più vicino a lui, figlio come lui della partitocrazia. E si divertiva a notare che “quando D’Alema alza la voce gli danno del miglior Craxi”. Considerava passeggero l’effetto Di Pietro in politica e considerava Fini “un vuoto incartato”, in cui “le forme prevalgono sulla sostanza”. Titolai l’articolo: “Intervista al miglior politico degli ultimi vent’anni”. Confermo il giudizio, anzi oggi lo raddoppierei: “degli ultimi quarant’anni”. Spiace dirlo a uno come me, mai stato socialista o di sinistra, e nemico sin da ragazzo dell’arroganza e della corruzione al potere.

Craxi mise in crisi il consociativismo catto-conf-comunista, con supporto di laici e bella stampa; tentò di modernizzare la sinistra e sdoganare la destra, liberandosi dalla pregiudiziale antifascista dell’arco costituzionale; varò il nuovo Concordato e la nuova scala mobile, pensò a una grande riforma istituzionale che riportasse al centro della politica la decisione, l’elezione diretta del Capo dello Stato. Favorì la revisione storica, la passione nazionale e risorgimentale, il socialismo tricolore. A lui si deve il governo più duraturo della prima repubblica, che coincise col periodo di maggior vitalità, ottimismo e benessere dell’Italia e di gran prestigio internazionale, da quinta potenza mondiale (ma i debiti crescevano). Sigonella fu un mirabile esempio di sovranità nazionale; che costò caro a Craxi e forse ad Andreotti.

Craxi si circondò non solo di nani e ballerine, ma anche di intelligenze politiche affilate, di prim’ordine e di cenacoli intellettuali come il laboratorio di Mondoperaio. Ciò non sminuisce le sue responsabilità nell’Italia del malaffare, della partitocrazia e delle tangenti. Lo Statista aveva un suo doppio, Ghino di Tacco, o il Cinghialone come lo chiamava allora Feltri. Ma non fu lui ad avviare la corruzione politica e il finanziamento losco dei partiti, già in uso grazie alla sinistra dc sin dagli anni ’50 nel parastato e ai primi socialisti al potere negli anni Sessanta. Lui cercò di liberare il Psi e il Paese dalla morsa tra il Pci che godeva di sostegni anche economici sovietici più la rete delle coop, e della Dc che gestiva potere e sottopotere.

Craxi disegnò uno Stato autorevole che libera il Mercato ma conserva il primato della politica sull’economia; apre alla religione senza essere clericale: per Craxi il problema non era tacitare la Chiesa ma dare prestigio allo Stato e autorevolezza alla politica. È il vuoto di decisione politica che porta a trovare supplenze, dalla magistratura alla finanza, dalla chiesa alle ingerenze internazionali. Craxi era per un’Italia laica, moderna ed emancipata ma non avrebbe ridotto la sinistra a difendere gay, aborti, eutanasie, zingari, tossici e clandestini, ferma all’antifascismo. Con Craxi avemmo l’unica efficace sinistra di governo che ha prodotto la repubblica italiana. Certo, un po’ brigante, affarista e malandrina. Non idealizziamo, non dimentichiamo, vediamo tutti i lati. È vero, ci fu una pianificazione dei pedaggi da pagare alla politica. Ma la politica non si può giudicare solo con la morale e col codice penale; si giudica soprattutto dagli effetti che produce sulla vita del Paese e dei suoi cittadini, sul ruolo dello Stato rispetto allo sviluppo, i costi vanno rapportati ai benefici. E poi, lo vediamo oggi, i cretini incompetenti fanno più danni dei briganti capaci.

Quando emerse Renzi, molti s’illusero che fosse un nuovo Craxi. Più loquace, più brillante ma meno autorevole, meno solido, meno legato alla storia italiana. Disponeva, a differenza di Craxi, di un partito di maggioranza, non aveva rivali, ma non si rivelò all’altezza del compito e alla fine restò vittima di se stesso e di una sinistra che riuscì a mortificare ma non a modificare.

Craxi resta il nostro ultimo grande statista. Si, fu un professionista della politica, prosperò con lui il malaffare; ma daremmo cento dilettanti grillini e sinistri allo sbaraglio per avere uno come lui. Ad avercene…

M, La Verità 17 gennaio 2020