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Da Fukushima al mare

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Da Fukushima al mare

Il Giappone sverserà un milione di tonnellate di acqua contaminata impiegata per raffreddare i reattori danneggiati nell’incidente nucleare di Fukushima nell’Oceano Pacifico.

Lo ha reso noto il primo ministro Yoshihide Suga, confermando l’esito di una decisione molto attesa per le sue implicazioni ambientali, presa malgrado la netta opposizione di diversi paesi dell’area, dell’industria della pesca e dei rappresentanti dell’agricoltura locale. L’annuncio arriva a dieci anni esatti dalla catastrofe del marzo 2011, quando i reattori dell’impianto nucleare di Fukushima nel nord-est del Giappone furono investiti prima da un terremoto di magnitudo 9 e poi da uno tsunami che ha provocato il surriscaldamento del combustibile nucleare, seguito dalla fusione del nocciolo all’interno dei reattori, a cui si accompagnarono le esplosioni di idrogeno e le emissioni di radiazioni. Da allora, la manutenzione della centrale genera l’equivalente di 140 tonnellate di acqua contaminata al giorno che, pur trattata negli impianti di bonifica, continua a contenere il trizio, un agente radioattivo.

In questi dieci anni il gestore della centrale, la Tokyo Electric Power (Tepco), ha accumulato circa un migliaio di serbatoi di acqua contaminata nell’area adiacente all’impianto, l’equivalente di 1,25 milioni di tonnellate di liquido, e raggiungerà la massima capacità consentita entro l’estate del 2022. I lavori dovrebbero cominciare tra un paio di anni, ma il processo di diluizione dell’acqua nell’Oceano potrebbe durare fino a 17 anni. 

Una decisione controversa?

Quella che Suga ha definito “l’opzione più realistica”, tema di ampio dibattito in Giappone e contro cui fanno fronte comune allevatori, coltivatori e associazioni di pesca che temono danni alla produzione e soprattutto alle esportazioni, già duramente colpite dopo l’incidente, ha però ottenuto il via libera dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA). Secondo l’AIEA, il rilascio dell’acqua contaminata nell’Oceano Pacifico, previo trattamento, sarebbe infatti in linea con gli standard internazionali. Immediata la replica di Pechino che, attraverso una nota diffusa dal ministro degli Esteri, Wang Yi, definisce il piano “irresponsabile” e “dannoso per la salute pubblica”, accusando Tokyo di aver deciso di smaltire acque reflue nucleari “senza riguardo per i dubbi e l’opposizione interni ed esteri”. Un approccio condiviso da Taiwan e dalla Corea del Sud, il cui governo ha espresso “forte rammarico” per la decisione e annunciato che “adotterà le misure necessarie per mantenere il popolo sudcoreano al sicuro dall’acqua contaminata”. Di parere opposto invece il Dipartimento di Stato americano secondo cui il Giappone “è stato trasparente sulla sua decisione” e avrebbe adottato “un approccio conforme agli standard di sicurezza nucleare accettati a livello globale”.

La scelta più economica?

A dieci anni dall’incidente nucleare, i reattori danneggiati devono ancora essere costantemente raffreddati e per farlo è necessaria dell’acqua. Moltissima acqua: circa 140 tonnellate al giorno. Che una volta utilizzata, malgrado i trattamenti, resta contaminata. Per questo, l’area intorno alla centrale di Fukushima ospita oggi circa un migliaio di serbatoi contenenti tanta acqua da riempire circa 450 piscine olimpioniche. Durissimo l’attacco di Greenpeace per cui il governo nipponico ha deciso di “ignorare completamente i diritti umani e gli interessi della gente di Fukushima e in generale del Giappone e della parte di Asia che si affaccia sul Pacifico”. Invece di usare “la migliore tecnologia esistente per minimizzare i rischi di esposizione a radiazioni, immagazzinando l’acqua a lungo termine e trattandola adeguatamente per ridurre la contaminazione – accusa l’organizzazione – si è deciso di optare per la scelta più economica, scaricando l’acqua nell’Oceano Pacifico”.

Gli ambientalisti lamentano inoltre la scarsa trasparenza dell’intera operazionedenunciando una presenza di radionuclidi nell’acqua trattata con il procedimento dell’osmosi inversa (Alps) superiore alle dosi consentite. In particolare, oltre al trizio, si tratta di Carbonio-14 (C-14), che ha un tempo di dimezzamento di migliaia di anni, e lo Stronzio-90. Entrambi, secondo Shaun Burnie, autore del rapporto ed esperto nucleare di Greenpeace Germania, rischiano di entrare nella catena alimentare provocando danni genetici incalcolabili.

Cina-Giappone: fine del disgelo?

A dieci anni dall’incidente, il peggior disastro nucleare dopo Chernobyl, la questione delle acque contaminate contribuirà a far salire la tensione tra Cina, Stati Uniti e Giappone? Di certo il sostegno di Washington alla decisione del governo Suga non è passato inosservato e secondo Hu Xijin, redattore del Global Times, testata vicina al Partito Comunista Cinese, servirebbe a “cementare la fedeltà di Tokyo” alla Casa Bianca. Da settimane Pechino osserva con fastidio la simmetria crescente tra Usa e Giappone: “La Cina spera che il Giappone, in quanto paese indipendente, guardi allo sviluppo della Cina in modo obiettivo e razionale, invece di essere fuorviato da alcuni paesi che hanno una visione di parte nei confronti della Cina” dichiarava lo scorso 5 aprile il ministro degli Esteri cinese Wang Yi.

La fragile opportunità di un disgelo nelle relazioni Cina-Giappone, apertasi con l’ex primo ministro Shinzo Abe, sembra essersi richiusa con la sua uscita di scena e, come in gran parte del mondo occidentale, l’umore nei confronti di Pechino sembra essersi inasprito nel corso del 2020: la pandemia, le violazioni dei diritti umani a Hong Kong e nello Xinjiang e il confronto nel Mar Cinese meridionale hanno posto le basi. L’arrivo di Joe Biden alla Casa Bianca potrebbe fare il resto. “Tra incomprensioni e distanze crescenti, la questione dello scarico delle acque di Fukushima è stata altamente politicizzata” osserva Liu Weidong, studioso di relazioni tra Stati Uniti e Cina all’Accademia cinese delle scienze sociali. Ma se una questione ambientale si trasforma in un nodo politico, il rischio è di perderci tutti.

Il commento

Di Axel Berkofsky, Co-head ISPI Asia Centre

“La decisione presa dal governo Suga delude su tutti i fronti. Scaricare l’acqua contaminata nell’oceano può essere la scelta più economica e facile ma non sembra essere quella giusta da fare: conservare l’acqua lì dove si trova per altri 20 anni e mantenere pulito l’oceano. Il Giappone ha certamente il know-how tecnologico e l’esperienza per trovare una soluzione diversa e alternativa nel tempo, ma Suga ha scelto la exit strategy più rapida, ignorando le ripercussioni e il danno all’immagine del Giappone”.

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A cura della redazione di  ISPI Online Publications (Responsabile Daily Focus: Alessia De Luca,  ISPI Advisor for Online Publications)