Franz-Josef Strauss, storico ministro della Unione cristiano-sociale bavarese (Csu), aveva le idee abbastanza chiare sulla collocazione del suo partito: «Rechts von mir ist nur noch die Wand», alla nostra destra c’è solo il muro. Oggi è crollato quello che divideva le due Germanie, ma se ne sta alzando uno che potrebbe spaccare ancora di più il Continente. Il muro politico tra Europa dell’Ovest e Europa dell’Est, dove il presidente ungherese Viktor Orbán sta capeggiando un blocco formato dal gruppo di Visegrad (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria) e i nuovi satelliti che gli orbitano intorno, dall’Italia di Matteo Salvini e all’Austria di Sebastian Kurz.
Il collante è il rifiuto delle leggi europee sui flussi e una stretta sempre più rigida sui migranti, appena sancita da Budapest anche sulla sua carta costituzionale. L’obiettivo è dettare la linea a Bruxelles e al blocco moderato del centro-occidentale, ormai ridotto all’intesa tra la Francia di Emmanuel Macron e la Germania di Angela Merkel. Anzi, neanche tutta la Germania, visto che la linea di Berlino è tenuta sotto scacco dalle pulsioni xenofobe della già citata Csu. Il partito bavarese, secondo gli osservatori, guarda a Orbán per annientare la concorrenza interna della destra populista di Alternative für Deutschland. Anche al costo di costringere la sorella maggiore Merkel a giostrarsi fra le alleanze internazionali e le turbolenze che si agitano nella sua stessa maggioranza.
Cosa bolle in pentola, nel concreto? Per ora nulla, ma da qui al prossimo maggio il «progetto Orbán » potrebbe sfociare in una forza capace di scardinare i vecchi equilibri dell’Europarlamento e spingere la destra sovranista su numeri di peso all’Eurocamera. Orbán ha accantonato ufficialmente l’ipotesi di lanciare «una formazione paneuropea contro l’immigrazione», anche se le avrebbe pronosticato «un grande successo» in vista delle elezioni del 2019. Ma la sua scelta di restare all’interno del Partito popolare europeo potrebbe avere effetti anche più destabilizzanti.
Nel vivo di un suo discorso in memoria di Helmut Kohl, il cancelliere che ha guidato la Germania alla riunificazione, Orbán si è di fatto candidato come regista del «rinnovamento del Ppe», con l’ambizione di «aiutarlo a ritrovare la sua via delle radici democratico-sociali». In pratica un manifesto di intenzioni, con l’obiettivo di sottoporre la famiglia europea dei popolari alla stessa metamorfosi subìta dal suo partito: Fidesz. Nata come forza liberal 30 anni fa, «l’Unione civica ungherese» è slittata sempre più a destra sotto alla guida di Orbán, accasandosi sotto all’etichetta del nazional-conservatorismo.
Oggi la formazione monopolizza il parlamento magiaro (133 seggi su 199) e si regge su una dicotomia che piace anche a neoalleati come Salvini e Kurz: xenofobia ed euroscettisismo soft in politica estera, con un’ostilità ai migranti cavalcata sempre più intensamente dalla crisi del 2015 ad oggi; liberismo spinto sulla politica interna, dove la ricetta economica prevede una flat tax al 15% e una contrazione dei salari per abbassare il costo del lavoro, allo scopo di mantenersi attrattivi verso le imprese estere. Possibile che il modello applicato al partito di governo di un paese da 10 milioni di abitanti si allarghi al resto d’Europa?
Secondo alcuni osservatori sì, anche grazie alla crisi che sta logorando i vecchi poli del Ppe e soprattutto dei social-democratici, affossati da una crisi che favorisce soprattutto la destra. «Quando nel 2015 ha iniziato a parlare di immigrazione, Orbán era circondato da governi europei che lo odiavano, a partire dall’Italia di Renzi. Oggi è circondato da ammiratori e gode di margini di manovra inimmaginabili» spiega Stefano Bottoni, ricercatore senior all’Istituto di Storia dell’accademia ungherese delle Scienze. « Orbán ha capito già allora che poteva cavalcare la questione dei migranti, creando un collante identitario fra i vari paesi – aggiunge – Anche se poi gli interessi di fondo fra le varie forze che lo appoggiano sono contrapposte».
In effetti l’unico interesse in comune fra i vari governi, il blocco alle migrazioni, sta provocando frizioni per alcuni paesi (come in Germania) o rischia di tradursi in un boomerang di lungo termine per diversi altri (come l’Italia). In Germania Angela Merkel viene stretta all’angolo dalle pulsioni «sicuritarie» del suo alleato bavarese Horst Seehofer, già in piena campagna elettorale per il voto del suo länder di domenica 14 ottobre. Seehofer chiede una stretta sui migranti e ha già avviato da tempo un dialogo con Orbán, ponendo la cancelliera in una posizione di imbarazzo (diplomatico) fra il suo ruolo in Europa e la gestione di una maggioranza nata fragile dal voto dello scorso autunno. Senza contare che il pressing arriva anche dall’interno del suo stesso partito, la Unione cristiano-democratica che inizia a interrogarsi sulla successione di Merkel. E la linea politica che potrebbe conseguirne.
Cus Mudde, studioso olandese di populismi internazionali, spiega al Sole 24 Ore che Merkel potrebbe essere spinta in orbita sovranista anche dalle lotte fratricide del suo stesso partito. «Il problema – dice Mudde – non è solo la Csu, ma anche i conflitti di potere per la successione a Merkel dentro alla Cdu, dove prime linee come Jens Spahn (attualmente ministro della Salute, ndr) vogliono muovere il partito a destra. Detto questo, non porteranno tutto agli estremi raggiunti da Orbán, visto che vogliono stare nel sistema liberal-democratico». E va anche detto che Merkel ha bisogno dell’Ungheria meno di quanto l’Ungheria abbia bisogno della Germania. I 16 länder tedeschi incidono per oltre il 25% su tutto l’import dall’Ungheria, acquistando beni per l’equivalente di 26,5 miliardi di dollari solo nel 2016. L’astio per i «burocrati di Bruxelles» non impedisce al governo di Budapest di contabilizzare l’80% delle sue esportazioni dentro l’Eurozona.
Chi sembra avere solo da perdere, al momento, è l’Italia (che tra l’altro acquista, a sua volta, prodotti per l’equivalente di 5 miliardi di dollari circa da Budapest). A Bruxelles, la scelta dell’attuale governo di allinearsi al «blocco Visegrad» ha suscitato diverse perplessità, sopratutto quando si parla dell’architrave giuridica di tutta la questione migranti: il regolamento di Dublino III, il testo che impone ai paesi di prima accoglienza di prendere in carico la gestione dei rifugiati. I tentativi di riforma verso Dublino IV, incentrati sull’obiettivo di redistribuzione interna alla Ue, sembrano essere naufragati definitivamente in occasione della riunione Consiglio degli Affari interni di inizio mese. In quell’occasione è arrivato il voto sfavorevole di sette paesi: Austria, Romania, Slovenia, Slovacchia, Ungheria, Spagna e, appunto, Italia. Elly Schlein, europarlamentare socialdemocratica che ha seguito da vicino la riforma di Dublino, spiega che l’Italia si è andata a infilare in un «paradosso»: seguire Orbán e la «retorica di odio» delle forze populiste rischia di tradursi in un boomerang sulla situazione italiana.
I paesi dell’Est, oltre alle stesse Germania e Austria, non sembrano avere intenzione di rivedere il meccanismo di quote che imporrebbe ai paesi di aumentare i propri obblighi di solidarietà (leggi: accogliere più migranti) dai paesi più esposti. Cioè la Grecia e l’Italia. «Mi sembra del tutto assurdo guardare a paesi che hanno interessi agli antipodi rispetto ai nostri – dice Schlein – Il loro unico obiettivo è lanciare un’egemonia. Ma a restare tagliati fuori saremmo noi».