Pochi morti da infezioni maturate nei mesi scorsi. Pochi accessi al pronto soccorso per covid, la cui diagnosi è spesso incidentale in pazienti ricoverati per altri motivi. A sentire gli ospedali, la malattia in Italia sembra evaporata. A questi si aggiungono altri segnali sulla dinamica dei contagi, che a un mese e mezzo dalla riapertura resta sotto la soglia 1 di Rt in tutta Italia.
Il direttore dell’Istituto Mario Negri Giuseppe Remuzzi in una intervista al Corriere della Sera ha messo in fila questi fatti aggiungendone un altro, che potrebbe spiegare in parte questa apparente remissione dell’epidemia: da una serie di screening condotti sui ricercatori del Mario Negri e della Brembo risultano solo tamponi debolmente positivi, probabile segno di un affievolimento, o addirittura scomparsa, dell’infezione. Segnali simili provengono dal Veneto, anche se sono contestati dal virologo Crisanti.
L’ipotesi, espressa da Remuzzi con la consueta chiarezza, ha suscitato consensi e perplessità. Vediamo perché.
Deboli positività
Si definisce “debolmente positivo” un tampone in cui, per rilevare tracce dell’Rna virale, bisogna amplificare il segnale un numero molto alto di volte. Remuzzi riferisce che la positività nei tamponi dello studio del Mario Negri emergeva solo dopo 34-38 cicli di amplificazione. Ma più si amplifica, più il segnale si fa debole e incerto, facendo pensare a tracce di Rna virale ormai residuali e inattive. Niente infezione, insomma. La questione è ora all’attenzione della cabina di regia del Sistema nazionale di monitoraggio, che, come mi spiega uno dei suoi componenti, Vittorio Demicheli, sta appunto considerando di abbassare la soglia di positività, quindi il numero dei cicli di amplificazione, per non prendere come veri positivi persone con tracce di Rna che messe in coltura non sarebbero in grado di replicarsi.
Il tampone nasofaringeo, si sa, non è il massimo dell’accuratezza. Essa varia dal 45 al 60 per cento e dà risultati più affidabili nella prima settimana dall’esordio dei sintomi. Un tampone debolmente positivo potrebbe anche indicare un tampone malfatto, oppure un tampone eseguito su un infetto in via di guarigione, o ancora un tampone eseguito su un infetto asintomatico destinato a restare tale o ad ammalarsi (vedi articolo di Stefania Salmaso). Non si può escludere, peraltro, come ricorda nel suo articolo Simonetta Pagliani, che un asintomatico sia in grado di infettare altre persone.
Che dire allora di questi tamponi debolmente positivi? E soprattutto, quanti sono sul totale dei tamponi positivi che ogni giorno ci vengono comunicati come “nuovi casi positivi”? È lecito, chiedono i critici, basarsi sulle opinioni rilasciate in un’intervista senza solide prove che un tampone con poca carica virale possa considerarsi innocuo? E che questo genere di tamponi siano effettivamente così diffusi come suggerisce Remuzzi?
La risposta alla prima domanda è sì: esistono studi che dimostrano che una bassa carica virale possa indicare una non infettività. Il primo di questi studi è stato pubblicato il 1 aprile sulla rivista Nature a firma di uno dei più importanti virologi del mondo, Christian Drosten della Charité di Berlino e colleghi di Monaco e Cambridge. Sotto le centomila copie di Rna virale per millilitro di espettorato, il rischio residuo di infettività è da considerarsi minimo. Un paziente con almeno dieci giorni di sintomi e con questa quantità di Rna virale, dicono i ricercatori, può essere dimesso senza particolari preoccupazioni.
È anche sulla base di questo studio che il 17 giugno l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha aggiornato le raccomandazioni sull’uso del tampone indicando che a tre giorni dalla risoluzione dei sintomi e almeno 13 giorni di isolamento un paziente di covid può essere “liberato” anche senza conferma di negatività da tampone, poiché il rischio d’infettare va a quel punto considerato trascurabile. Testualmente:
Sulla base di prove che dimostrano la rarità del virus che può essere coltivato in campioni respiratori dopo nove giorni dall’insorgenza dei sintomi, specialmente in pazienti con malattia lieve, di solito accompagnata da livelli crescenti di anticorpi neutralizzanti e da una risoluzione dei sintomi, sembra sicuro liberare i pazienti dall’isolamento sulla base di criteri clinici che richiedono un tempo minimo di isolamento di 13 giorni, piuttosto che strettamente sui risultati ripetuti della Pcr. È importante notare che i criteri clinici richiedono che i sintomi dei pazienti siano stati risolti per almeno tre giorni prima del rilascio dall’isolamento, con un tempo minimo di isolamento di 13 giorni dall’insorgenza dei sintomi.
Rischio trascurabile non vuol dire nullo. Quindi, come ricorda l’Oms nella nuova linea guida, il rilascio anche senza tampone riguarda soprattutto chi ha avuto la malattia in forma non grave, e soprattutto in contesti dove il prolungamento delle degenze e dell’isolamento in casa fino a tampone negativo distrarrebbe risorse importanti ai casi più gravi. Questo vuol dire che in un paese come l’Italia, in fase calante dell’epidemia, si debba continuare a tamponare tutti a oltranza? Non si rischia in questo modo di avviare una pericolosa spirale di sovradiagnosi che carica inutilmente il sistema – e la pazienza delle persone – di falsi positivi, costringendo alcuni a lunghissime e inutili quarantene?
Su questo punto il Veneto ci dà un insegnamento importante. Nei giorni scorsi Roberto Rigoli, primario del reparto di microbiologia dell’Ospedale di Treviso, ha segnalato il ricorrere di tamponi debolmente positivi assai dubbi alla presenza del governatore Zaia, e per questo si è attirato le ire dell’ormai incontenibile Crisanti. Passata la buriana, Rigoli accetta di tornare con me sulla questione dal pronto soccorso dell’ospedale: “Quello che si vede qui in pronto soccorso ci indica quanto siano insidiosi questi tamponi debolmente positivi. Capita per esempio che si presentino persone cha hanno già fatto il covid, che sono state dimesse con tampone negativo, confermato da altri tamponi negativi, a cui però ha fatto seguito un tampone debolmente positivo, magari anche accompagnato da sintomi come difficoltà respiratorie. Come interpretare un caso di questo genere? Come un nuovo caso positivo?”, si domanda Rigoli. “Il dato di laboratorio va sempre letto alla luce della clinica.
Può essere infatti che il paziente sia un asmatico, e che per la precedente infezione di covid abbia avuto una fibrosi polmonare. Normale quindi che abbia affanno, ma questo non significa che sia di nuovo infetto. I casi in cui a tamponi negativi seguono tamponi positivi solo ad alti cicli di amplificazione non sono rari, e se mal interpretati costringono persone sane a nuove quarantene, dannose per loro e per la società. D’altra parte non è vero come dicono alcuni che non abbiamo modo di controllare a livello sperimentale tali risultati: ogni nuovo tampone positivo, anche se debole, viene infatti da noi segnalato al sistema regionale, che individua immediatamente i contatti stretti del nuovo ‘caso’. Ma se questi contatti, come quasi sempre accade, non si infettano a loro volta, qualcosa questa osservazione vorrà pur dire”.
La risposta alla prima questione posta dall’articolo di Remuzzi è che l’infettività del nuovo coronavirus, come di tutti i virus, dipende dalla dose. Se questa è bassa, il rischio di passare l’infezione è basso o nullo, poiché l’Rna virale trovato in scarsa quantità sul tampone il più delle volte non è più in grado d’infettare e replicarsi. È del tutto ragionevole quindi immaginare di ridefinire le soglie di positività dei tamponi e di farne uno strumento da usare in modo più appropriato in termini di sanità pubblica. Evitando, in nome di un malriposto accanimento diagnostico, l’aumento sconsiderato di falsi positivi.
I nuovi casi sono nuovi casi?
Veniamo allora alla seconda questione cruciale: quanti sono i tamponi debolmente positivi tra i nuovi casi? Effettivamente non sono pochi. Considerando la Lombardia, responsabile della grande maggioranza dei nuovi casi giornalieri registrati in Italia nelle ultime settimane, da metà a due terzi dei tamponi sono risultati debolmente positivi.
Alla luce di tutto questo si può continuare ad affermare che i “nuovi casi” sono davvero tutti nuovi casi? Quanti, per esempio, dei 224 nuovi casi dichiarati dall’Italia il 21 giugno (128 in Lombardia) riflettono infezioni recenti? Di quei 224 casi, in realtà, risulta che quasi metà sono frutto di tamponi eseguiti dopo test sierologico positivo su persone che si sono ammalate nella prima metà di maggio, quindi vecchi casi con un (dubbio) residuo di positività. Come mi spiega Antonio Russo, responsabile della epidemiologia della Ats Milano, “un sierologico positivo, seguito da un tampone debolmente positivo, è un soggetto che ha fatto la malattia e che è ormai sulla via della guarigione, e che probabilmente non è in grado di infettare nessuno. Lo stesso si può dire per un sierologico positivo seguito da un tampone positivo, perché attualmente i sierologici li fanno i casi sintomatici e i contatti stretti prima dell’11 maggio. Dall’11 maggio tutti i sintomatici, e tutti i contatti stretti dopo i 14 giorni di quarantena obbligatoria, fanno un tampone. Quindi, in Lombardia, ci sono meno casi con un vero potenziale infettivo di quelli dichiarati, mentre si continuano a osservare decessi della coda della prima ondata”.
Quindi, dei “nuovi casi” catturati dal sistema di tracciamento, almeno la metà non sono nuovi casi, o perché falsi o perché vecchi.
Test sierologici: che confusione!
Purtroppo le campagne di test sierologici non fanno che aumentare la confusione, poiché invece di essere concepiti come un vero strumento di sanità pubblica, sembrano rispondere ad altre logiche. “I test sierologici, infatti, fanno parte di una strategia se vengono eseguiti per misurare la proporzione di popolazione che ha avuto la malattia per stimarne la prevalenza e quindi pianificare azioni di sorveglianza differenziata; per identificare gli operatori sanitari immuni da fare rientrare al lavoro con qualche garanzia in più; e per definire potenziali problemi nella fase di vaccinazione massiva”, continua Antonio Russo. Attualmente, invece, in molte parti d’Italia sembrano prevalere i test proposti dai sindaci con kit diversi e spesso dalle caratteristiche non note, o direttamente dai medici di medicina generale e ambulatori privati che li fanno a pagamento al di fuori di qualsiasi strategia di sanità pubblica.
Ci muoviamo insomma nella nebbia di dati incerti, e in questa nebbia c’è chi scorge, non del tutto a torto, come Remuzzi, motivi di speranza. E altri, non del tutto a torto, motivi di cautela.
Appuntamento in autunno
D’altronde è lo stesso Henri P. Kluge, direttore della regione europea dell’Organizzazione mondiale della sanità, a riconoscere nella sua conferenza stampa del 18 giugno questa incertezza che ancora circonda il covid-19. In molte parti del mondo la pandemia è ancora in crescita. L’Europa conta al momento il 31 per cento dei casi e il 43 per cento dei morti totali. Nell’ultimo mese, dopo un calo dei casi in molti dei paesi europei, il numero è ricominciato crescere a un livello attuale di circa 20mila casi al giorno.
“Il lockdown e il distanziamento sociale ci hanno fatto guadagnare tempo”, ha spiegato Kluge. “Dove possibile, dobbiamo cogliere l’opportunità per rafforzare la preparazione e la capacità di risposta dei nostri servizi di emergenza e del nostro sistema sanitario. Ciò significa sperare per il meglio ma prepararsi al peggio di una probabile ripresa di covid-19 nei nostri paesi. Come dice il detto popolare, in autunno conteremo i nostri pulcini, ma questo dipende da come ci comportiamo ora”.
Luca Carra
[ Scienza in rete / Internazionale ]