Giunto in anticipo, su una tabella di marcia che prevedeva ancora qualche concessione alla riflessione, l’incarico al professor Giuseppe Conte significa che son cadute tutte, o quasi tutte, le resistenze alla nascita del governo giallo-verde, e soprattutto alla nomina a presidente del Consiglio di un non-eletto, un cittadino privo di qualsiasi esperienza politica e amministrativa, ancorché esperto di diritto, che subito s’è definito, con qualche originalità , «avvocato difensore del popolo italiano».
Dissolte sembrano infatti le perplessità dell’Europa, che ieri, per tramite dello stesso vicepresidente della Commissione Dombrovskis e del commissario Moscovici che fino a qualche giorno fa avevano richiamato con toni anche bruschi l’Italia ai suoi doveri, l’ha invece in qualche modo rinviata a un nuovo appello, assegnandole quasi un anno di tempo per mettere a posto i suoi traballanti conti pubblici.
Ma la novità più importante, è inutile girarci attorno, viene dal Quirinale. Dopo aver lasciato filtrare, percepire, immaginare, con la cautela che gli è congeniale, le proprie riserve sull’andamento preso dalla crisi e sull’atteggiamento non proprio collaborativo dei partiti, e dopo averle esplicitate solo una volta con chiarezza nel recente discorso di Dogliani, commemorando il suo predecessore Einaudi e ricordando i poteri dei Capo dello Stato, Mattarella ha rotto gli indugi e ha convocato Conte per l’incarico.
Ora, se uno sente il bisogno di sottolineare le prerogative del proprio ruolo, lascia intendere che al momento non è affatto facile esercitarle. E se solo pochi giorni dopo al Quirinale – senza alcuna attenzione proprio a queste stesse prerogative – i due alleati della maggioranza che formerà il governo dichiarano sepolta la Seconda Repubblica, inaugurano la Terza e comunicano di aver indicato al Presidente il nome del premier da incaricare e di aver pronta la lista dei ministri da nominare, vuol dire che le preoccupazioni del Capo dello Stato non erano affatto campate per aria.
Perché allora Mattarella ha deciso di metterle da parte e aprire la strada al primo governo populista in Europa? Per due ragioni evidenti: la prima è che fin da gennaio, nel discorso di Capodanno, aveva spronato i futuri protagonisti della scena politica a scrivere una nuova pagina, a non lasciarla bianca. Dalle urne elettorali non è uscito un vero vincitore, ma se i due che hanno preso più voti si mettono insieme per fare un governo, non si può far finta di nulla. La seconda è che tra martedì e ieri Di Maio e Salvini, malgrado la sorpresa del curriculum di Conte «abbellito» (e contestato dalle università straniere in cui avrebbe dovuto rinforzarlo), confermavano la loro indicazione sul candidato terzo per la guida del governo. A quel punto Mattarella non poteva che prenderne atto e convocare il professore e prossimo premier mai conosciuto prima.
Dalla lunga durata del colloquio, e da alcuni inserti nella dichiarazione dell’incaricato, preconfezionata e mirata a dichiarare fedeltà al «contratto di governo» dei leader di 5 Stelle e Lega, s’intuisce che il primo confronto e la ricerca di un difficile compromesso hanno sortito i loro effetti nelle rassicurazioni che il nuovo governo rispetterà la tradizionale collocazione internazionale dell’Italia e affronterà con spirito collaborativo, impegnandosi a fondo nei prossimi vertici europei, i negoziati sul bilancio dell’Unione, sul diritto d’asilo per i migranti, sull’Unione bancaria. Non è poco, anche se occorrerà vedere se alle parole seguiranno i fatti e se davvero, come ha detto, Conte saprà adoperare l’autonomia riservata dalla Costituzione al presidente del Consiglio, per esempio nella composizione della lista dei ministri, e sui punti controversi, a cominciare dalla scelta del responsabile dell’Economia (un euroscettico come il professor Paolo Savona, o una figura più istituzionale?).
La crisi di governo che si avvia a conclusione entrerà sicuramente nei libri di storia e sarà studiata nelle università . Il nuovo esecutivo, che potrebbe essere pronto entro la fine della settimana, non dovrà cimentarsi duramente fin dall’inizio con le opposizioni politiche, di centrodestra e centrosinistra, perché escono con le ossa rotte dall’andamento, anomalo finché si vuole ma altrettanto innovativo, dei passaggi istituzionali, degli approcci tra i partiti e dei tentativi di trovare una soluzione, evitando l’incubo di elezioni anticipate a quattro mesi dal 4 marzo.
La vera opposizione la faranno i mercati, allarmati da quel che potrà accadere, impegnati a guardare con la lente di ingrandimento le prime mosse del professor Conte e dei suoi ministri, e soprattutto, in assenza di messaggi chiari, pronti a firmare vendite in blocco dei nostri titoli di stato, cosa che si ripercuoterebbe immediatamente sui risparmi degli italiani. Molto dipenderà dalle capacità che il nuovo premier, con la compostezza che ieri ha esibito al Quirinale, saprà dimostrare, e dalla consapevolezza che il nuovo mestiere che si è scelto è fondato su una regola non scritta: governare è fare quel che si deve, e non ciò che si vuole.