Negli ultimi due anni (2017 e 2018) l’economia mondiale è cresciuta del 3,7 per cento annuo, al netto dell’inflazione, con i paesi avanzati che – trainati dagli Stati Uniti – hanno fatto registrare un +2,5 per cento e i paesi emergenti vicini al +5 per cento, sostenuti dalla eccellente (e persistente) performance dei paesi dell’Asia sud-orientale, Cina e India prima di tutto. Per il 2019 il Fondo Monetario si attende un rallentamento. Ma la domanda che si pongono tutti gli osservatori è se il “rallentamento” assumerà lo sgradevole aspetto di una crisi mondiale di cui si è quasi perso il ricordo.
L’ultimo anno in cui le cose sono andate male per l’economia mondiale è stato il 2009, l’anno successivo al fallimento della banca di investimento Lehman Brothers. Allora la stagnazione del Pil mondiale si accompagnò a numeri fortemente negativi sia per gli Stati Uniti (-2,5 per cento) che per l’area euro (-4,5 per cento). In vari paesi avanzati la Grande Recessione fu anticipata da un crollo del mercato immobiliare Sul mercato americano l’indice Case-Shiller dei prezzi delle case perse un terzo del suo valore nei diciotto mesi compresi tra la fine del 2006 e il marzo 2008. A seguire, dalla seconda metà del 2008, in parallelo con la discesa del Pil, arrivò il crollo del mercato azionario (il valore del Dow Jones Industrial si dimezzò tra il settembre 2008 e il marzo 2009).
Anche nel Regno Unito e in Spagna si osservarono andamenti analoghi, sia pure spostati in là nel tempo. Nel Regno Unito il prezzo delle case scese del 19 per cento tra l’inizio e la fine del 2008 mentre nello stesso periodo la borsa di Londra lasciava sul terreno il 43 per cento del suo valore e il Pil tra il terzo trimestre 2008 e il terzo trimestre 2009 diminuiva del 5,9 per cento. In Spagna con un mercato immobiliare in calo del 10 per cento tra l’inizio del 2008 e la fine del 2009 si osservò un crollo del 50 per cento del mercato azionario e una riduzione più contenuta del Pil (-3,7 per cento tra metà 2008 e metà 2009).
Ma oggi, a fine 2018, di crisi sul mercato immobiliare almeno nei paesi citati non c’è traccia. L’indice americano di Case-Shiller ha superato nel corso del 2018 i valori massimi pre-crisi. Nel Regno Unito il recupero dei valori pre-crisi è avvenuto già a fine 2015, con l’aggiunta significativa che la crescita immobiliare britannica è proseguita anche dopo il referendum Brexit di metà 2016. E in Spagna il mercato immobiliare – sia pure ancora lontano dai livelli pre-crisi – prosegue una graduale crescita. Se – come scriveva Edward Leamer – il mercato immobiliare èil ciclo economico, almeno tre grandi paesi del mondo (Stati Uniti, Regno Unito e Spagna) non mostrano sintomi di recessione. Ma il mondo è grande e le potenziali nubi all’orizzonte possono venire anche da fuori del mercato immobiliare.
A preoccupare gli investitori ci sono almeno due problemi. Il primo è che una recessione potrebbe essere inflitta proprio dalle banche centrali, cioè da quelle istituzioni che hanno salvato il mondo dopo il fallimento di Lehman. La ragione è semplice. Proprio con il fallimento di Lehman, le banche centrali di tutto il mondo sono intervenute a sostegno delle banche e dei mercati azionari e obbligazionari, acquistando massicciamente titoli pubblici e privati che – in conseguenza di ciò – scomparvero dai bilanci delle banche commerciali, in tal modo liberandone preziose risorse di capitale e dunque migliorandone i coefficienti patrimoniali.
Ora che le economie hanno ritrovato la strada della crescita tali interventi straordinari hanno perso la principale ragione di essere e sono dunque in via di smantellamento. Un ritiro troppo rapido delle banche centrali dai mercati obbligazionari (cioè se il volume di titoli da esse venduti o semplicemente non più sottoscritti fosse troppo elevato) porterebbe però a un rapido peggioramento della disponibilità del credito, il che solitamente si associa a minori investimenti e acquisti di beni durevoli. La svolta di politica monetaria delle banche centrali è particolarmente rilevante per l’economia americana dove la Federal Reserve ha da tempo interrotto l’acquisto di titoli e alzato già nove volte (per un totale di 2,25 punti percentuali) i tassi di riferimento per il mercato interbancario, il cosiddetto Federal Funds rate.
L’aumento dei tassi in America porta con sé un probabile drenaggio di capitali dal resto del mondo. Di sicuro, quando in America salgono i tassi parte il contatore delle crisi valutarie e finanziarie nei mercati finanziariamente più deboli. Qualcosa si è già visto in Turchia e Argentina, con valute e borse locali andate a picco e governi e banche centrali presi nel dilemma tra il rialzo dei tassi per difendere il valore del cambio e il timore che questo possa tradursi in una recessione dell’economia. Ma si tratterà di problemi locali, non dell’economia mondiale nel suo complesso. Inoltre, se l’America rallenta, anche i tassi saliranno meno lentamente.
E poi c’è il rischio del protezionismo. La presidenza di Donald Trump sta consolidando un nuovo scenario mondiale in cui l’interazione tra le grandi potenze non è più dettata dalle regole dell’ordine economico liberale sancite negli ultimi decenni. I dazi minacciati e parzialmente attuati dal presidente Usa hanno l’obiettivo di correggere le storture di funzionamento dell’attuale sistema globale di scambi. Che di difetti ne ha tanti. Ma Trump, come un elefante in un negozio di cristalli, per difendere i lavoratori e i produttori manifatturieri cancellati dal mondo globale sconfessa i negoziati con Asia ed Europa, minacciando e attuando dazi. Soprattutto contro i sussidi del governo cinese ai produttori di acciaio e contro le multinazionali che approfittavano del Nafta per localizzare le loro produzioni in Messico appena al di là dei confini americani.
Ma il rimedio è peggio del buco. Almeno in linea di principio, non tutti i dazi sono uguali. Ci sono anche i dazi chirurgici, introdotti con la funzione specifica di indurre il destinatario a cambiare il suo comportamento. Se però chi subisce il dazio anziché adeguarsi contrattacca, arriva la guerra commerciale e il conto lo pagano tutti, soprattutto i più deboli, come durante la Grande Depressione. Cina, Germania e altri stati esportatori hanno cominciato a rallentare la loro corsa. Ma per ora Trump è riuscito a rinegoziare il Nafta con Messico e Canada, anche modificandone la denominazione in USMCA, senza sprofondare il mondo nel protezionismo.
Nel complesso, sia pure tra tante minacce, l’economia mondiale evidenzia tuttavia un andamento piuttosto solido che rende improbabile il rischio di una recessione mondiale nel 2019.