La lunga intervista rilasciata dal Papa al Sole 24 Ore rappresenta una rara occasione di riflessione per imprenditori e politici, per uomini di politica e di economia.
Le parole del Pontefice ci aiutano prima di tutto a migliorare l’analisi sui motivi della attuale crisi, caratterizzata da chiusure identitarie, localismo e sovranismo, paura del diverso, ripudio della globalizzazione, rabbia verso le élite. Una crisi che ha il suo risvolto politico (la destra xenofoba in Europa, Trump, le dittature gentili in Russia ed Asia), ma anche un suo risvolto economico: i dazi, la crisi delle istituzioni internazionali e del multilateralismo.
Papa Francesco ci consegna uno strumento di analisi nuovo, “no all’economia dello scarto e dell’esclusione”, applicata alla materia e all’energia, ma anche agli uomini, al lavoro. Un’analisi lucida e potente: l’esclusione come nuova forma di sfruttamento ed oppressione. E cosa c’è dietro la crisi delle forze politiche tradizionali se non questo, il non avere percepito proprio l’esclusione come nuova forma di sfruttamento? E cosa c’è dietro il successo rapidissimo di forze antisistema (da Trump ai sostenitori della Brexit, dai 5 Stelle a Salvini) se non il dare voce agli esclusi, alla loro rabbia contro gli inclusi, alla loro richiesta di comunità e non di individualismo?
Ma al tempo stesso il Pontefice ci indica una strada che non è quella dei populisti. Un’idea più avanzata ed integrata di “inclusione”, che supera gli schemi della socialdemocrazia e pone al centro l’uomo, la persona, e non più il denaro e le regole economiche internazionali. Questa parte dell’analisi di Francesco è interessantissima, e dovrebbe stimolare la riflessione prima di tutto da parte delle culture e delle forze politiche progressiste e di sinistra, che sembrano aver smarrito il proprio senso di esistere. La persona al centro dell’economia, un mercato più civile, un ambiente comunitario favorevole, un’etica amica della persona finanza al servizio dell’economia reale. L’idea che la crescita è il risultato dell’impegno di ciascuno per il bene della comunità, la comunità come un’unica famiglia.
Sulle pagine del quotidiano degli imprenditori italiani il Pontefice parla di loro, a loro, alle imprese, ai manager, a chi investe. Chiede a tutti uno sforzo a non rassegnarsi allo stato di fatto, alle regole del gioco, chiede creatività ed impegno. Il discorso sulla persona ed il lavoro è centrale. Concepire l’idea di un’impresa senza lavoro, con poco lavoro o con lavoro pagato poco è sbagliato, un progetto destinato a non durare. Pensare al lavoro, ai propri dipendenti, come possibili scarti è sbagliato. L’analisi coglie al cuore di un modo di pensare di manager (non tutti), diffuso da tanti decenni, per cui il lavoro è soltanto un fattore della produzione, un elemento comprimibile per la competitività, un ostacolo alla crescita. Chi lavora nel mondo delle imprese ha molto su cui riflettere, specie in anni di trasformazioni tecnologiche profonde che possono rischiare di aumentare l’idea del lavoro come scarto. Il lavoro non può essere sostituito dalle macchine, né dai sussidi, che “creano dipendenza e deresponsabilizzano”. Parole di fuoco, nel bel mezzo della discussione sul reddito di cittadinanza.
Arriva uno spunto anche sui modelli di organizzazione dell’impresa. Pur non rinunciando al riconoscimento del libero mercato e dell’iniziativa privata, il Pontefice indica la strada di “diverse forme istituzionali di impresa” citando il terzo settore. Mi domando se la stessa azienda a proprietà pubblica non debba interrogarsi sulle parole del Papa, e ritrovare forse un senso della sua missione. Tutto il tema della gestione pubblica di servizi essenziali per i cittadini non dovrebbe forse partire proprio da questo presupposto? Che forme di economia diverse, pur in un mercato libero, possono consentire di costruire un mercato con al centro la persona? Le aziende pubbliche, quindi, ed i loro azionisti sono chiamati a una sfida profonda e avvincente, dopo anni di aziendalismo ed imitazione dei modelli privatistici. Un mondo dove è elevato il tasso di contratti a tempo indeterminato, che fa formazione e persegue finalità ambientali e sociali, ma che può fare molto di più. Deve fare molto di più.