Come è stato possibile, nel giro di poco più di un anno, che l’invincibile armata pentastellata si sia disintegrata? Sappiamo che come nella migliore tradizione italiana i capi minimizzeranno. Daranno la colpa all’alleanza che non ha funzionato, e al deficit già verificato altre volte di penetrazione grillina alle elezioni amministrative. Ma non basta. Non per giustificare una sconfitta di tale clamorosa portata.
E questo i militanti lo capiscono. Ed è ai militanti che Di Maio, Fico, Casaleggio, Grillo devono riuscire a parlare. Senza veli e peli sulla lingua. Provando a prendere per le corna i due errori che li hanno portati alla disfatta.
Il primo è organizzativo. Grazie all’accoppiata vincente tra il comico superstar e il geniale ingegnere informatico, i Cinquestelle hanno messo in campo in poco tempo e con pochissimi mezzi una macchina da guerra digitale di straordinaria potenza. Primo caso per portata ed efficacia nella conquista del potere tra tutte le democrazie occidentali. La forza di questa struttura è stata nel dirigismo bentamita, una forma di centralismo cybercratico che ha consentito, al tempo stesso, un reclutamento iperdisciplinato e una gestione verticistica della comunicazione. Un modello che avrebbe destato l’invidia di Vladimir Ilic, e che ha preso in contropiede i partiti tradizionali, divorati da spinte centrifughe e da faide intestine incontrollabili.
La forza di questo modello si è rivelata, però, anche il suo limite. Gli eletti numerosissimi del Movimento, dopo un primo momento di subalterna euforia, hanno preteso di dire la loro. Ancor più vista l’ideologia grillina che predicava la partecipazione a oltranza, anche grazie alla infrastruttura telematica. Ma si è capito ben presto che Rousseau funzionava meglio top-down, per trasmettere le decisioni dall’alto. Selezionare gli input dal basso soprattutto quelli dissidenti era molto più complicato. Il risultato è che la stretta verticistica complice il disimpegno di Grillo – si è rapidamente trasformata in una morsa d’acciaio insopportabile. Senza però che fosse disponibile un modus operandi alternativo. Come si fa, in quattro e quattr’otto, a mettere in piedi un partito coi suoi complessi e controversi organismi piramidali al posto di un semplice server con le sue unidirezionali procedure.
A inceppare forse fatalmente il processo già così difficile di riconversione organizzativa è intervenuto il posizionamento rispetto al corpo elettorale. Il bacino dei Cinquestelle era nato post-partito. Nel senso che si rivolgeva agli orfani dei vecchi partiti, e ai giovani che con quei partiti non volevano avere niente a che fare. Non era però post-ideologico, come i suoi leader hanno voluto far credere. Al contrario, al suo interno convivevano motivazioni e delusioni di destra come di sinistra. Certo, avevano in comune lo spirito protestatario ed antiestablishment. Ma non era abbastanza per legarli a tempo indeterminato al Movimento. Erano in prestito. Pronti a tornare alla propria originaria vocazione ideologica se qualcuno fosse riuscito a risuonare le corde giuste.
È stato quello che ha fatto Salvini, riprendendosi in un battibaleno gli orfani di Berlusconi ed attirando abilmente nuove greggi all’ovile di una destra risorta dalle proprie ceneri. Svuotati della componente di destra, i Cinquestelle hanno continuato ad illudersi di poter tornare ad occupare quello spazio centrale del sistema che avrebbe consentito loro di allearsi ora con l’uno ora con l’altro polo. Ma il sogno neo-democristiano di Di Maio con la gestione ambigua della crisi si è rivelato un abbaglio. Non sapremo mai se la piega sarebbe stata diversa con un rapido cambio di leadership, e una chiara scelta a favore della nuova alleanza col Pd. Questa strada avrebbe richiesto l’autodafè del capo politico, e un riposizionamento strategico per il quale è mancato il coraggio.
Fatto sta che l’atteggiamento ondivago portato avanti in questi mesi ha finito col dare la sensazione agli elettori di un movimento opportunista. E l’opportunismo si paga sempre a caro prezzo. Molti, a questo punto, diranno che l’unica via di salvezza è tornare alla linea dura e pura che era stata il marchio di origine. Nessuna alleanza, e avanti per la propria strada. Ma nessuno sa più, a questo punto, quale sia davvero la strada. E, in un sistema proporzionale, senza alleanze i grillini rischiano di condannarsi all’estinzione.
di Mauro Calise
[ IL MATTINO ]