venerdì, 22 Novembre 2024

Filosofia. Spranzi: «La filosofia concreta è “sul campo”»

Sara Pautasso e Giovanni Scarafile [ Avvenire ]

Due stili di gioco hanno contrassegnato la storia del calcio: il cosiddetto “Calcio totale” olandese di Johan Cruyff, fondato su flessibilità e creatività, e il catenaccio italiano, basato su difesa solida e tattiche rigide. Da una parte, un approccio aperto all’adattamento e alla spontaneità; dall’altra, un approccio ancorato a principi e schemi predefiniti. In campo filosofico, possiamo trovare un parallelo simile. 

Tradizionalmente, la filosofia si è spesso orientata verso un approccio formale, simile al catenaccio, in cui dominano strutture teoriche rigide e principi universali. Oggi, tuttavia, sotto la spinta di problemi in larga parte inediti, emerge un nuovo stile di filosofia, paragonabile al “Calcio totale”, che valorizza l’esperienza e la flessibilità. Questo approccio è incarnato dalla “field philosophy” o filosofia sul campo, una pratica filosofica che si distacca dalla tradizione, portando la riflessione etica direttamente nei contesti reali dove le questioni morali emergono e si sviluppano.

Formatasi in filosofia della scienza in Italia, Francia e negli Stati Uniti, Marta Spranzi è professoressa associata all’Università di Versailles St-Quentin-en-Yvelines e lavora a Parigi nel Centro di etica clinica. Dopo essersi interessata alla tradizione della dialettica e alla logica del dibattito, con studi presso la Tel Aviv University, il suo lavoro odierno si basa sulla epistemologia dell’etica clinica e sulle questioni etiche poste dalla pratica medica. È tra le prime esponenti europee della “field philosophy”. La sua ultima monografia Le travail de l’éthique. Décision clinique et intuitions morales, apparsa nel 2018, ha suscitato in Francia un ampio dibattito. Qui delinea la sua visione della field philosophy, introducendo temi ad essa connessi: l’etica euristica, il coinvolgimento personale, le intuizioni morali, il residuo morale e mostrando come la filosofia possa rispondere dinamicamente alle sfide contemporanee, proprio come il calcio.

Professoressa Spranzi, potrebbe spiegare in che cosa consiste il suo modello di etica euristica?

«Il primo elemento che caratterizza l’approccio “euristico” che propongo è costituito da un presupposto fondamentale: l’etica riguarda in primo luogo l’azione alla prima persona, e non il giudizio “alla terza persona” che possiamo darea posteriori su una determinata azione, sia essa la nostra, oppure quella di un altro. In altri termini, bisogna invertire il rapporto tra azione e giudizio: il giudizio razionale non precede l’azione ma l’accompagna, le dà forma, e ne potenzia la forza; il dato fondamentale della nostra vita morale è l’impegno con cui cerchiamo di realizzare con le nostre azioni pratiche i nostri “valori vitali”, quello che il filosofo Joseph Raz chiama i «life-building values» che ci tengono a cuore.

Per esempio, se quello che mi anima nella vita è la ricerca dell’“amicizia sincera”, cercherò di costruire delle relazioni che corrispondono a questo slancio fondamentale, senza avere definito in anticipo che cosa questo significa esattamente; le relazioni di amicizia che avrò costruito non saranno identiche tra loro, ma potranno ciascuna a suo modo incarnare questo ideale del tutto mondano e per niente trascendente. Ma — e questo è il secondo elemento fondamentale di un approccio euristico —, il fatto che l’impegno e il coinvolgimento concreto siano il vero motore dell’etica, non significa che si debba rinunciare all’interrogazione fondamentale su che cosa significhi “fare il bene” in ogni situazione particolare.

Al contrario, nessuna definizione o teoria etica del bene può guidarci nell’orientare le nostre azioni, e dobbiamo continuamente ricercare e ridefinire quale sarebbe la migliore, o la meno peggiore, azione in relazione al contesto particolare in cui ci troviamo. Dobbiamo continuamente, in altri termini, adottare un atteggiamento “scettico” nel senso positivo degli antichi — dove skepsis significa indagine —senza mai dare per scontato quella che sarebbe la buona risposta ai nostri interrogativi».

Potrebbe spiegarci come il coinvolgimento personale possa migliorare l’affidabilità e la validità di un giudizio etico o professionale?

«Questo punto mi sembra molto importante, tanto più che è in contraddizione con un presupposto molto diffuso: l’idea che la neutralità, nel senso dell’astrazione da ogni situazione concreta sia la garanzia fondamentale dell’oggettività del giudizio morale e quindi della sua legittimità. Avremmo bisogno, in etica come nella scienza, di una visione distanziata ed esperta allo stesso tempo, quello che viene chiamato metaforicamente la “prospettiva quasi divina” (“God’s eye view”) sulla realtà. Certo non si tratta di negare l’importanza e la pertinenza di competenze particolari per prendere una decisione etica, cioè una decisione che tende a incarnare un bene superiore. Nell’ambito sanitario, i dati clinici sono essenziali, malgrado le incertezze che spesso sussistono e che bisogna riconoscere.

Allo stesso modo, un esperto legale può aitare a determinare se una decisione clinica, giudicata eticamente accettabile può essere realizzata concretamente, date le leggi in vigore. Questi tipi di perizie specifiche, tuttavia, sono certo necessarie, non sono sufficienti e hanno un ruolo puramente strumentale: non sono altro che il materiale a partire dal quale i veri esperti, le persone coinvolte nell’attuazione di una decisione e che hanno quindi una posta in gioco esistenziale nella discussione, potranno deliberare, da soli e insieme. È vero che generalmente si sostiene che le persone “interessate” non possono per principio essere degli interlocutori legittimi dal punto di vista etico, nella misura in cui il loro giudizio rischia di essere distorto dalla possibilità di trarre un vantaggio personale dalla decisione. Bisogna tuttavia distinguere le decisioni che riguardano direttamente le scelte personali di vita— qual è per esempio la decisione medica che meglio corrisponde ai valori a cui intendo dar vita nella mia esistenza — e quelle che riguardano un’entità collettiva, e che necessitano quindi che ci si distacchi dalla propria prospettiva individuale per realizzare l’interesse comune.

Nel primo caso, e non nel secondo, nessuno può sapere meglio della persona stessa qual è il modo migliore di armonizzare i propri valori con i limiti e ostacoli imposti dalla realtà o dal rispetto degli altri. In effetti ogni agente “abita”, come direbbe Wittgenstein, una “forma di vita” particolare che conosce quindi intimamente (profondamente). In secondo luogo, il giudizio espresso in queste situazioni personali critiche è spesso il risultato di un confronto, talvolta un vero scontro, di idee o argomenti opposti, che possono condurre a capovolgimenti e cambiamenti di posizione. La decisione finale può quindi essere considerata come “corroborata”, come direbbe il filosofo della scienza Karl Popper, nella misura in cui, dopo essere stata sottoposta alla critica interna ed esterna, deriva la sua forza epistemica dal fatto di esser riuscita a superare tutte le obiezioni che la persona coinvolta ha dovuto affrontare e a cui ha dovuto rispondere».

Nel suo libro Le travail de l’éthique. Décision clinique et intuitions morales, lei ha sostenuto che «la base della vita morale non è un sistema deduttivo controllato da principi», ma è costituita dalle intuizioni morali, definite come «giudizi immediati, resistenti alla critica e stabili nel tempo che caratterizzano la nostra esperienza morale e che possiedono una fenomenologia particolare». Può spiegarci qual è la loro rilevanza?

«L’intuizionismo morale è stato difeso da filosofi di tradizione inglese come Henry Sigdwick nella seconda meta dell’‘800 e David Ross negli anni ’30, per rispondere all’esigenza di fondare una teoria morale su delle basi allo stesso tempo solide e vicine all’esperienza morale del soggetto, valorizzando così il senso comune senza cadere in una forma di relativismo in cui “anything goes”. Così, sostengono gli intuizionisti, è vero che le diverse teorie etiche, come le teorie deontologiche di origine kantiana, l’utilitarismo, il contrattualismo, ecc., possono fornirci delle ragioni, pertanto tutte diverse, per dimostrare che mentire è male: infrange una regola universale, diminuisce il bene comune, viola i diritti altrui, etc.

Tuttavia, queste ragioni non sarebbero efficaci, se non trovassero in noi un’eco favorevole grazie alla presenza in noi di un’intuizione preesistente, confusa ma potente, che fa sì che mentire provochi un certo malessere. Certo, oggi si potrebbe rileggere l’intuizionismo alla luce della psicologia sperimentale e la teoria dell’evoluzione. Non è tuttavia questa direzione che mi interessa. Secondo una versione recente “revisionista” dell’intuizionismo, liberato da una certa tendenza dogmatica, le intuizioni morali sono non tanto il fondamento assoluto, ma i “dati” dell’etica, in quanto l’etica, come abbiamo detto si costruisce a partire dell’esperienza morale di ciascuno.

Quello che ci interessa è di far emergere questi giudizi spontanei ma tenaci di ciascuno in modo da poterne riconoscere l’importanza e questo per tre ragioni. In primo luogo, per una ragione pragmatica: di fatto le norme che li contraddicono troppo frontalmente non possono avere nessuna presa sulla realtà e sono quindi impotenti a cambiare le pratiche vigenti. Le norme non evolvono tramite una rivoluzione, ma in seguito a una serie di riforme. In secondo luogo, contrariamente a quanto afferma l’intuizionismo classico, queste intuizioni non sono immutabili, ma sono sensibili alla critica razionale: in questo senso, riconoscerle e considerarle come un punto di partenza legittimo permette anche di non trasformarle in altrettanti pregiudizi, nascosti e impermeabili quindi alla critica.

Per finire, le intuizioni morali dei principali protagonisti di decisioni difficili, come sono le decisioni mediche, possono essere studiate in modo empirico per meglio capire le posizioni spesso contraddittorie prese nel corso del processo deliberativo, e i valori su cui spesso si basano. E solo accettando un pluralismo irriducibile dei valori che si potrà paradossalmente trovare un “compromesso integrativo” con tutti gli attori potranno accettare».

Nel suo lavoro, lei parla dell’esistenza di un «residuo morale» (résidu moral), sottolineando come le questioni etiche abbiano caratteristiche uniche che le differenziano dalle questioni empiriche. Di cosa si tratta?

«Il “residuo morale” è una forma di malessere che persiste anche una volta che si è presa quella che si crede essere la migliore decisione, dati i limiti posti da un contesto particolare. Fa parte dell’esperienza morale di ciascuno, ma può destabilizzarci e turbare l’immagine che abbiamo spontaneamente dell’etica: il suo scopo non è quello di pacificare, rassicurare, far tacere le emozioni negative del rimorso e del rimpianto? Purtroppo, non è così: contrariamente alla morale, l’etica, come scrive il filosofo inglese Stuart Hampshire: «trova la sua origine nel conflitto, nell’anima divisa e nelle esigenze contrarie, e nel fatto che non esiste un percorso razionale che porti da questi conflitti all’armonia e alla garanzia di una risoluzione, ed a una conclusione normale e naturale».

Contrariamente alle controversie scientifiche, che tendono, anche se solo a lungo termine, ad escludere certe ipotesi e a confermarne altre, i disaccordi che attraversano le discussioni etiche sono risolti solo provvisoriamente e in modo contingente e completamente reversibile. Come la natura stessa dell’esistenza umana, l’etica è destinata ad essere rimessa in discussione in maniera permanente. Paradossalmente quindi, il “residuo morale” ci insegna a non cessare mai di interrogarci, anche su quello che nel passato abbiamo potuto pensare essere giusto».

Quali sono, secondo lei, le principali sfide nel trovare risposte normative universali alle questioni etiche, considerando la natura intrinsecamente aperta di queste questioni?

«La prima sfida è quella per l’appunto di saper rinunciare all’idea stessa che esistano per le questioni etiche, per esempio per le questioni di etica medica che mi stanno particolarmente a cuore, delle risposte normative universali. Anche se la tradizione illuminista ci ha abituato a ricercare e ad affidarci a questa rara avis, e il movimento dei diritti umani è per fortuna riuscito ad affermare qualche principio universalmente riconosciuto, questi valori restano delle stelle lontane, utili per un primo orientamento, ma troppo generali per essere sufficienti a fondare le norme concrete della nostra vita comune.

Il diavolo purtroppo è nei dettagli, come si dice! Per esempio, nel campo della bioetica, la questione dell’eutanasia è stata dibattuta con tutti gli argomenti possibili a favore e contro, come se esistesse una soluzione unica eticamente giusta e facilmente dimostrabile. Piu il dibattito si fa intenso in un numero crescente di Paesi nel mondo, più una soluzione semplice e netta sembra allontanarsi. Diventa infatti chiaro da una parte che diverse tradizioni culturali e filosofiche sono più o meno compatibili con la pratica del suicidio assistito e/o dell’eutanasia. E dall’altra che la vera questione non consiste a rispondere con un sì o un no alla questione della legalizzazione della morte assistita, ma a discuterne le modalità concrete, le condizioni di accesso e il ruolo dei sanitari.

La seconda, e più importante sfida dell’etica consiste quindi nell’identificare, a partire da un lavoro di terreno, le ragioni per cui certe pratiche sarebbero accettabili sul piano etico, e altre no o non ancora, e le condizioni necessarie affinché queste ragioni possano essere condivise da un numero sufficientemente grande di cittadini. Un lavoro quindi delicato, lungo che necessita una conoscenza sottile della realtà che solo la “field philosophy” e lo scambio continuo con tutte le altre discipline pertinenti può permettere».

In qualità di filosofa che pratica la “field philosophy” negli ospedali, quali sono le sfide principali che incontra nell’interfacciarsi con pazienti, medici e altri operatori sanitari?

«A Parigi pratico l’attività di consulenza etica, nel quadro del Centro di etica clinica (Centre d’éthique clinique, AP-HP). Faccio quindi quotidianamente l’esperienza del “lavoro dell’etica”, seguendo un processo collettivo di aiuto alla decisione medica eticamente difficile in tempo reale. Ogni persona coinvolta nella decisione viene intervistata separatamente per conoscere non solo la sua posizione ma anche e soprattutto le ragioni per cui una certa soluzione appare legittima oppure impossibile. Il caso viene poi presentato ai membri del Centro, un gruppo interdisciplinare di una ventina di persone che discutono liberamente delle opzioni a partire dal materiale fornito e identificano una o diverse piste promettenti.

I consulenti fanno in seguito una sintesi organizzata della discussione collettiva e la presentano ai principali protagonisti, sperando che questa prospettiva diversa e non tecnica li aiuti a trovare una via d’uscita al conflitto di valori che impediva di giungere a una decisione comune. Dopo il rinforzamento progressivo della voce del paziente e di coloro che gli stanno vicino, a partire dal 2000 si assiste mi sembra oggi all’aumentare della distanza tra le richieste dei pazienti e la tecnica medica a cui gli operatori sanitari sono abituati e formati.

Rispondere alle richieste di morte assistita, a domande diverse di procreazione assistita, alle esigenze di distribuzione di risorse rare, a delle situazioni sociali sempre più difficili costituisce una sfida difficile e inedita per le professioni sanitarie. Questi nuovi compiti necessitano non solo di una formazione adeguata ma anche di una riflessione etica più approfondita e probabilmente une nuova definizione del ruolo degli operatori sanitari e della loro “integrità professionale”. I “filosofi di terreno” possono assumere il ruolo di mediatore per facilitare il dialogo tra i cittadini e la professione medica e sanitaria».

Sara Pautasso e Giovanni Scarafile

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