Il re è nudo, finalmente. Nude le correnti togate, nudi i palazzi del potere giudiziario e politico, nudi certi giornali. Ma occorre dire con chiarezza che queste oscene nudità, che adesso tutti vedono in seguito all’inchiesta della procura di Perugia sul sostituto procuratore di Roma Luca Palamara e alle violente ripercussioni che la vicenda sta avendo sul Consiglio superiore della magistratura e sull’Associazione nazionale magistrati, erano ben individuabili in controluce (e talvolta in piena luce) da anni. E solo degli osservatori davvero distratti, o molto ipocriti, possono affermare di non averne mai avuto alcun sentore. Due cose due su questa storia di nomine, correnti, amicizie, regolamenti di conti e cene romane, perciò, vanno messe in fila, perché parlano da sole.
Ai distratti, per esempio, si può utilmente rammentare un passaggio di una lettera firmata dall’allora capo dello Stato, e presidente del Csm, Giorgio Napolitano al suo vice a Palazzo dei Marescialli, Michele Vietti. Napolitano lamentava «i prolungati ritardi riferibili anche al trascinarsi di contrasti o tentativi di accordo tra le diverse componenti di rappresentanza della magistratura» nella nomina dei capi di due importantissime procure, Reggio Calabria (il cui vertice era vacante da un anno) e Palermo. Nella lettera, datata febbraio 2013, il presidente ricordava di avere «negli ultimi anni più volte richiamato alla pesante ricaduta» di tali dinamiche correntizie «sul prestigio del Csm».
Più volte, negli ultimi anni. Non ieri. Nel 2014, poi, poco prima di Natale il presidente interviene al Plenum di Palazzo dei Marescialli per bacchettare quei pubblici ministeri che assumono atteggiamenti «impropriamente protagonistici» e per rimandare a un suo precedente discorso in cui spiegava che il Consiglio non deve «farsi condizionare nelle sue scelte da logiche di appartenza correntizia».
Si potrebbe ancora andare indietro nel tempo e arrivare al furioso scontro del 2008 tra le procure di Salerno e Catanzaro per l’inchiesta “Why not”, che al Csm riportarono tra l’altro in superficie precedenti spaccature correntizie su uno dei magistrati coinvolti. Ma preferiamo ricordare quanto ha detto appena qualche mese fa, a settembre dello scorso anno, l’attuale presidente della Repubblica e del Csm Sergio Mattarella, ricevendo al Quirinale i membri del Consiglio superiore nuovi e quelli uscenti: ai “laici” ha ricordato che, pur essendo eletti dal Parlamento, «non sono rappresentanti di singoli gruppi politici»; ai togati, invece, che «non possono e non devono assumere le decisioni secondo logiche di pura appartenenza».
Come si vede, in questa breve rassegna ritroviamo tutto ciò che si sta “scoprendo” in questi giorni: le lotte tra correnti per le nomine apicali, i regolamenti di conti tra magistrati anche tramite l’utilizzo di uno strumento a loro assai caro come l’obbligatorietà dell’azione penale, i rapporti “privilegiati” di certe toghe con alcuni media, le amicizie o inimicizie con determinati esponenti politici. Senza generalizzare, ovviamente. Ma il problema esiste ed è noto da tempo.
I distratti, così, sono serviti. Quanto agli ipocriti, forse ricorderanno che ai tempi della Prima Repubblica si diceva che la guida della Procura di Roma equivaleva quanto due ministeri. Era una battuta? Fino a un certo punto, forse. Ma la domanda più importante riguarda probabilmente il sistema elettorale del Consiglio superiore della magistratura, che dopo la riforma del 2002 – con la riduzione del numero dei componenti e l’introduzione del collegio unico nazionale, che non hanno evidentemente risolto i problemi di cui parliamo – non è stato più ritoccato.
Ci ha provato nella scorsa legislatura l’allora ministro della Giustizia Andrea Orlando, ma senza successo. Perché? Eppure una buona riforma andrebbe innanzi tutto a vantaggio della stessa magistratura e del suo organo di autogoverno – insieme magari al contenimento della ‘mondanità’ e dell’attivismo extra-giudiziario di alcune (poche) toghe – rendendoli più forti quando denunciano tentativi di delegittimazione o attentati di marca politica, persino con indecenti ‘liste di proscrizione’, all’autonomia e all’indipendenza sancite dalla Costituzione.
Ha detto bene il vicepresidente del Csm Davide Ermini al Plenum straordinario di tre giorni fa: «O sapremo riscattare con i fatti il discredito che si è abbattuto su di noi o saremo perduti». Anche perché qualsiasi diverso atteggiamento avrebbe un insopportabile sapore di vecchio.