venerdì, 22 Novembre 2024

Focus Regno Unito: l’ora di Boris Johnson

Fabio Parola | Antonio Villafranca (ISPI)

Il Regno Unito ha un nuovo Primo ministro.  Boris Johnson è stato eletto segretario dei Tories dai 160.000 iscritti al Partito conservatore. Johnson è stato ricevuto dalla regina Elisabetta II che gli ha conferito ufficialmente l’incarico di premier dopo le dimissioni di Theresa May, annunciate lo scorso 24 maggio. Johnson corona così un sogno personale che coltiva da quarant’anni, ma arriva a Downing Street in un momento delicatissimo per Londra. Quali sono le chance di sopravvivenza della fragile maggioranza che sostiene il governo a Westminster? Quale parlamento uscirebbe da eventuali elezioni anticipate? Brexit diventerà davvero realtà entro fine ottobre, come promesso da Johnson? Come gestirà il nuovo premier la crisi diplomatica con l’Iran?

Inizia l’era Johnson: ma quanto durerà?

Dopo un mese e mezzo di dibattiti e voti per restringere la rosa di candidati a due finalisti, il 23 luglio gli iscritti al Partito conservatore britannico hanno eletto il loro nuovo segretario: è Boris Johnson, l’ex sindaco di Londra e ministro degli Esteri, che ha sconfitto lo sfidante Jeremy Hunt con il 66% dei voti. Johnson succederà a Theresa May alla guida dei Tories e diventerà quindi il nuovo primo ministro del Regno Unito. Già oggi pomeriggio May e Johnson si sono recati in successione a Buckingham Palace: la prima per rassegnare le dimissioni da premier, il secondo per raccogliere ufficialmente l’incarico dalla regina.

Le primarie per la leadership dei conservatori hanno visto arrivare in finale due cosiddetti “hard Brexiteers”: sia Johnson sia Jeremy Hunt, che ha sostituito proprio Johnson come ministro degli Esteri dopo le dimissioni di quest’ultimo nel luglio 2018, spingono per portare Londra fuori dall’Unione europea e non si sono mai espressi chiaramente per escludere la possibilità che ciò possa accadere anche senza aver raggiunto un accordo con Bruxelles. La nuova segreteria Johnson sembra quindi pronta, almeno a parole, a uno scontro frontale con l’UE se ciò fosse necessario per rendere Brexit una realtà il prossimo 31 ottobre. 

L’umore però non è lo stesso tra le fila dei parlamentari conservatori e tra i ministri dell’attuale esecutivo, alcuni dei quali hanno annunciato dimissioni o cambi di schieramento in previsione di un nuovo governo Johnson. Defezioni tra le fila dei Tories renderebbero difficile la sopravvivenza del governo, che dalle elezioni del 2017 non ha il sostegno di una maggioranza e dipende dall’appoggio esterno dei dieci deputati degli unionisti irlandesi raccolti nel Democratic Unionist Party (DUP). Se alle elezioni suppletive del 1 agosto nel collegio di Brecon/Radnorshire i conservatori dovessero perdere il proprio seggio, la maggioranza combinata di Tories e DUP a Westminster si ridurrebbe a un solo voto di vantaggio sull’opposizione. Il governo Johnson sembra quindi nascere su basi fragili, e non è escluso che a causa di eventuali defezioni tra le fila dei Tories non si vada a elezioni anticipate.

La composizione attuale del parlamento britannico

Ipotesi elezioni anticipate: come cambierebbe Westminster?

Se davvero Johnson fosse costretto a indire elezioni anticipate, ciò non sarebbe comunque garanzia di un governo stabile o di una larga maggioranza per i conservatori. Basti pensare al precedente più vicino nel tempo. La scelta di Theresa May di sciogliere anticipatamente il parlamento nel giugno 2017, sperando negli elettori per ottenere una larga maggioranza e rafforzare la propria posizione negoziale con l’Unione europea, si è rivelata infatti un boomerang per i Tories, che hanno perso 13 seggi e la maggioranza parlamentare. Il risultato ha comunque confermato la centralità dei due storici partiti britannici, ma le vicende recenti attorno a Brexit hanno rivelato profonde fratture che corrono trasversalmente tanto all’interno dei conservatori quanto dei laburisti. Fratture che riguardano proprio il futuro delle relazioni tra UE e Regno Unito e che potrebbero essere determinanti per il risultato di eventuali elezioni a fine 2019 o inizio 2020. 

Dai sondaggi sembra che la leadership di Johnson porterebbe i Tories a perdere seggi in Scozia e in alcuni collegi in bilico tra conservatori e liberal-democratici. Questi ultimi escono galvanizzati dai risultati delle elezioni europee di maggio, in cui hanno raccolto poco meno del 20% dei voti, presentandosi come una forza politica capace di attrarre i conservatori “centristi” e contrari a Brexit. Come sempre accade in Regno Unito, le elezioni europee fanno storia a sé rispetto a quelle nazionali, non da ultimo perché alle elezioni nazionali vige il sistema maggioritario uninominale contro il proporzionale del voto europeo, e gli elettori utilizzano spesso le europee per mandare un “messaggio” ai partiti maggiori che poi tornano comunque a votare alle consultazioni nazionali. Ma il voto di maggio fa pensare che l’assenza di una chiara maggioranza sarebbe un’ipotesi altamente probabile anche a seguito di nuove elezioni.

D’altro canto, “Boris” è invece il candidato ideale per conquistare gli elettori più euroscettici e i sostenitori del Brexit party di Nigel Farage, che alle europee è arrivato al primo posto con il 30% dei voti ma ha sempre ottenuto risultati molto scarsi alle consultazioni nazionali (riuscendo a strappare un solo seggio alle politiche del 2015, anche a causa del sistema maggioritario). Le proiezioni danno attualmente laburisti e conservatori attorno al 25% delle preferenze, poco sopra il Brexit party e i liberal-democratici (18-19%); come tali intenzioni di voto si tradurranno in seggi effettivi però è difficile da prevedere, dato il sistema elettorale britannico. 

Indire elezioni anticipate sarebbe dunque di una scommessa rischiosa per Johnson, tanto più considerando che lui stesso gode solo di una maggioranza risicata nel proprio collegio di Londra (alle elezioni del 2017 ha avuto 5.000 voti di vantaggio su un bacino di circa 70.000 elettori) e che il Partito laburista ha lanciato una campagna per strappargli il seggio alle prossime elezioni. In ogni caso, ci si attende che Johnson porti con sé a Downing Street alcune delle persone che sono state suoi collaboratori durante la campagna elettorale per il referendum su Brexit nel 2016: un elemento che rafforzerebbe l’ipotesi di elezioni anticipate nei prossimi mesi.

Brexit a fine ottobre: mission impossible?

Indipendentemente dalle vicende interne al Regno Unito, resta il fatto che “it takes two to tango”: il tipo di Brexit che Johnson consegnerà agli elettori dipenderà dunque anche dall’atteggiamento dell’Unione europea verso il nuovo Primo ministro britannico. 

Le premesse non sono delle migliori, date le posizioni apparentemente inconciliabili delle due parti. Johnson si è infatti dimesso da ministro degli Esteri e ha annunciato la propria candidatura a rimpiazzare May proprio in opposizione all’accordo concluso lo scorso novembre da quest’ultima con i negoziatori di Bruxelles (salvo però votare in parlamento a favore dello stesso accordo, in linea con il governo, il 29 marzo). Durante la campagna elettorale per le primarie, Johnson ha promesso che riaprirà i negoziati e concluderà un accordo diverso e più vantaggioso per Londra, che riesca a evitare tra l’altro la clausola del “backstop” per gestire la questione del confine tra Repubblica d’Irlanda e Irlanda del Nord. Dall’altro lato, però, le istituzioni europee hanno più volte chiarito che il “Withdrawal agreement” concluso a novembre è l’unico accordo possibile e che non sarà possibile rinegoziarlo. Concessioni sembrano possibili da parte europea solo riguardo alla ‘Dichiarazione Politica’, ovvero il documento non vincolante allegato all’accordo di recesso che indica il futuro rapporto tra Londra e Bruxelles. Anche la tempistica sembra giocare a sfavore di Johnson: il nuovo Primo ministro avrà soltanto poche settimane dopo la chiusura estiva di Westminster (25 luglio – 3 settembre) e la chiusura per la stagione dei congressi di partito (tra metà settembre e inizio ottobre) per provare a negoziare un nuovo accordo e sottoporlo al voto del parlamento britannico. La scadenza della proroga per Brexit, che May ha raggiunto con gli altri leader europei, è fissata infatti per il 31 ottobre. Mentre Johnson ha garantito che quello sarà il giorno in cui Brexit diventerà realtà, si fa strada tra alcuni deputati conservatori “ribelli” l’idea di sfiduciare il governo per evitare un’uscita senza accordo

Una “no-deal Brexit” avrebbe conseguenze significative per l’economia britannica. Il Fondo monetario internazionale e l’Office for Budget Responsibility prevedono una contrazione del 2% del PIL nazionale nei dodici mesi che seguiranno Brexit (quindi, a oggi, nel 2020), mentre la ripresa prevista dall’anno ancora successivo lascerebbe comunque l’economia dello UK dell’1,6% più povera rispetto a uno scenario di Brexit “ordinata”. Un’uscita senza accordo peserebbe anche sul deficit pubblico, che nel primo anno supererebbe i 60 miliardi di sterline contro i 30 miliardi di spesa previsti invece in caso di “deal” (v. grafico). La frenata dell’economia britannica sarebbe principalmente dovuta ai problemi generati dalle barriere tariffarie e non tariffarie che Londra si troverebbe di fronte al momento di commerciare con l’UE e con i paesi che hanno concluso accordi di libero scambio con Bruxelles. Anche per i restanti 27 Stati membri dell’UE, comunque, una “hard Brexit” avrebbe conseguenze economiche negative: in particolare su quei paesi che intrattengono fitti scambi commerciali con Londra come Irlanda, Paesi Bassi, e in misura minore ma comunque significativa Francia e Germania.

Crisi tra UK e Iran: banco di prova di una Londra post-Brexit?

Secondo i “Brexiteers”, l’uscita dall’UE garantirebbe a Londra la possibilità di muoversi liberamente sul piano delle relazioni internazionali, rinegoziando accordi commerciali e lavorando a alleanze bilaterali senza doversi adeguare a quanto deciso dall’UE. Il potere negoziale che il Regno Unito avrà di fronte a potenze quali Stati Uniti, Cina e Russia rimane però tutto da verificare.

Negli ultimi giorni, la crisi diplomatica tra UK e Iran sta facendo da banco di prova per la capacità di Londra di portare avanti una propria politica estera e trovare alleati su cui fare affidamento. A inizio luglio le autorità di Gibilterra hanno sequestrato una petroliera iraniana sospettata di essere diretta in Siria, intervento che è stato letto da molti come un avvicinamento di Londra alla linea dura adottata dagli USA verso l’Iran. Quest’ultima ha risposto trattenendo a sua volta un tanker battente bandiera britannica, intercettato dai Guardiani della Rivoluzione nello stretto di Hormuz. Dopo l’incidente, il ministro degli Esteri Jeremy Hunt ha proposto di “internazionalizzare” la protezione dei convogli marittimi che transitano per lo stretto di Hormuz, lanciando un appello a Stati Uniti, Francia e Germania.

La partita si intreccia con lo scontro tra Washington e Teheran sul programma nucleare iraniano e l’accordo per regolarlo, il JCPOA. Da un lato, l’UE e i suoi Stati membri premono perché gli Stati Uniti revochino il proprio ritiro unilaterale dall’accordo e riaprano il dialogo con l’Iran; da questa prospettiva, una militarizzazione dello stretto farebbe salire le tensioni diplomatiche che Bruxelles sta cercando di smorzare. Dall’altro lato, Washington si è già proposta per guidare una missione navale a garanzia della protezione dei convogli marittimi. Al contempo, però, anche il segretario di Stato americano Mike Pompeo ha dichiarato che la responsabilità della protezione delle navi britanniche ricade in primis su Londra.

Davanti al prossimo governo britannico sembra dunque presentarsi la necessità di scegliere tra Stati Uniti e Unione europea. Una scelta, quella tra una delle due sponde dell’Atlantico, che almeno sulla questione iraniana non garantirebbe la massima copertura neppure se Londra scegliesse di fare affidamento sulla “special relationship” con gli americani. E che potrebbe tornare a ripresentarsi su molti altri temi cruciali per il futuro della governance globale, dal commercio internazionale ai rapporti con la Cina, dalla protezione delle infrastrutture strategiche alle politiche sull’ambiente.

CODICE ETICO E LEGALE