Giampiero Massolo, presidente dell’Ispi, già diplomatico e direttore del Dis, vede nella reazione di Mosca all’attentato alla Crocus City Hall la preparazione di una possibile escalation. “Che potrebbe non essere immediata”, dice l’ambasciatore. “Dipenderà dalle valutazioni che farà Putin della situazione sul terreno, dalla necessità di ricostituire l’apparato militare e dall’esito delle elezioni americane. Intanto, i servizi russi stanno preparando il terreno”. Ma in un modo o nell’altro, prima o dopo, Putin punterà verso l’Ucraina.
Ambasciatore, nel suo primo commento all’attentato, Vladimir Putin non cita l’Isis, parla di un atto pianificato contro i russi, a sangue freddo, come facevano una volta i nazisti. E annuncia una dura repressione: “Pagheranno per questo”. Intanto rinsalda la coesione interna. “Nei momenti più difficili la Russia diventa ancora più forte”.
Dalle sue parole si capisce che indipendentemente da chi sia stato, identifica l’attentato come un attacco alla Russia. Se sarà provato in qualche modo il collegamento con gli ucraini e l’Occidente, questo pare di capire, a pagare saranno gli ucraini. Così va letto l’accenno ai metodi nazisti. Gli organismi di sicurezza russi stanno intanto preparando la strada. Con l’evocazione della tradizionale leva del nazionalismo cementa coesione e supporto. Un modo per isolare chiunque si smarchi dal ‘patriottismo’.
Da quel che si capisce, gli attentatori sono tagiki. L’Isis ha rivendicato l’attentato. Ma che tipo di jihadismo è questo?
Fermo restando che non sappiamo ancora con certezza qual è l’attribuzione da dare a questo attentato, l’ipotesi sul tappeto è che si tratti di terrorismo jihadista non generico: non si tratta cioè di un’affermazione generica di lotta contro gli infedeli, di Stato islamico risorgente. Non è questo lo jihadismo che ha colpito a Mosca. Si tratta, invece, di jihadismo antirusso.
Quali sono i caratteri di questo nuovo terrorismo islamico?
Ha due componenti. Da una parte il ritornante contagio da sud, dal Caucaso e dall’Asia centrale. Questo jihadismo non si è del tutto esaurito, sull’onda lunga dell’Afghanistan periodicamente riemerge. Ci
ricordiamo tutti i ceceni, gli attentati di fine anni 90 e inizio anni Duemila. L’altra possibile componente sono queste brigate russe che combattono in Ucraina accanto all’Ucraina. Sono russi contro russi. Cobelligeranti. In queste brigate vi è anche una componente jihadista che può fondersi con la prima. Nel senso che così come sono contro il regime russo quelli che combattono al fianco degli ucraini,
allo stesso modo lo sono coloro che dal Caucaso e dall’Asia centrale organizzano questo genere di destabilizzazione.
Sono i terroristi su cui i servizi americani avevano lanciato un avvertimento il 7 marzo.
È un ulteriore elemento che porta in questa direzione. L’intelligence americana è stata molto rapida ad avvalorare la tesi del terrorismo jihadista. Poiché il monitoraggio e la raccolta di notizie dei servizi americani e inglesi nei confronti di questo tipo di terrorismo è particolarmente attivo. Se i servizi Usa sono arrivati a essere così rapidi nella loro conclusione, con un warning così preciso, il 7 marzo scorso, mi fa credere che qualcosa avessero intercettato. Ripeto, pur non avendo nessun elemento di prova, anche questo elemento porta ad avvalorare che questa pista possa esserci.
Nelle analisi di queste ore c’è chi ipotizza un coinvolgimento dei russi stessi, attraverso i servizi. Altri puntano il dito contro gli ucraini.
Se il jihadismo antirusso è il contesto più verosimile, queste due altre opzioni più estreme sono meno attendibili. La prima è che gli organismi di sicurezza russi abbiano ordito l’attentato per conto proprio, per stringere ulteriormente la repressione interna. Io non penso che sia realistico. La recente affermazione elettorale, in qualunque modo Putin l’abbia raggiunta, è talmente ampia che gli ha dato margine considerevole di azione per fare più o meno quel che vuole. In sintesi, Putin è così forte all’interno da non avere bisogno di una strategia della tensione. L’altra ipotesi estrema è che siano stati gli ucraini in prima persona a preparare l’attentato o che ci sia un loro coinvolgimento diretto. Io non credo neppure questo. La situazione sul campo della guerra vede ora l’Ucraina in una posizione di debolezza. Se questo è il quadro, preparare un attentato in Russia avrebbe fatto rischiare a Kiev ritorsioni pesantissime di Mosca. Nell’attuale situazione di debolezza, non sarebbe convenuto a Kiev rischiare di esporsi direttamente.
Ci si chiede che cosa può succedere ora, sia sul fronte interno russo che nello scenario di guerra.
Evidentemente, chiunque lo abbia compiuto, l’attentato offre a Putin un ulteriore motivo per un serrate le fila all’interno. Già dopo le elezioni, con quel risultato artatamente conquistato, l’opinione pubblica temeva che questo potesse accadere, che facesse presumere un’ulteriore mobilitazione o un avvitamento ulteriore contro il dissenso. È plausibile che porti questa conseguenza sul fronte interno.
Ma quanto è saldo il regime di Putin?
I regimi autocratici ci hanno abituato che a volte cedono di colpo. E questo tipo di attentati denota indubbiamente qualche crepa e disfunzione. Credo però che ci siano alcuni elementi che non dovrebbero farci ritenere prossima una frana in Russia. Malgrado le crepe, i bastioni su cui si regge il suo regime – le forze di sicurezza, l’apparato della difesa, gli oligarchi che prosperano sulla guerra e una dose di consenso popolare ottenuta utilizzando abilmente lo strumento del nazionalismo – restano sufficientemente saldi e non fanno presagire che di colpo il regime ceda. Per ora possiamo limitarci a dire che può sfruttare questo genere di accadimenti per aumentare la stretta e tenere la popolazione mobilitata.
Quali saranno le prevedibili conseguenze sul terreno di guerra?
Focalizzerei due elementi. I Servizi russi hanno detto fin da subito che hanno un’idea di chi sono i terroristi, un paio dei quali sarebbe stato addirittura catturato e avrebbe ammesso la propria provenienza centro-asiatica e l’ingaggio a pagamento, mentre altri sarebbero fuggiti ‘verso l’Ucraina’. Indipendentemente dal fatto, se sia vero o meno, il regime mette le mani avanti. L’intelligence offre allo zar un
pretesto. Putin può dire che, secondo i suoi Servizi, c’è stato un contatto con gli ucraini. E d’altra parte è un fatto oggettivo che i battaglioni cobelligeranti con Kiev stanno in Ucraina o al confine e non altrove. È un modo per allungare il campo allo zar, se volesse un ulteriore pretesto per andare nella direzione di un’offensiva di primavera, come già alcuni analisti sostenevano volesse fare. È oggettivamente una motivazione che potrebbe sfruttare verso un’escalation.
È alle porte un’intensificazione dell’attacco russo a Kiev?
Ma non è detto che lo faccia. Anzi, un’escalation immediata potrebbe non essere nel suo interesse. Per due motivi. In primo luogo, perché potrebbe voler aspettare come vanno le elezioni americane. E poi potrebbe avere ancora bisogno di rafforzare e riorganizzare l’apparato militare, messo a durissima prova dalla guerra in Ucraina. Ma intanto i Servizi fanno il loro mestiere, ampliano i suoi margini d’azione.
Lei parlava di un secondo elemento che potrebbe giocare un ruolo nell’orientare la condotta russa sul campo di battaglia.
Esatto. C’è un secondo elemento che offre un pretesto a Putin da sfruttare nel caso in cui decida per un’escalation. Mi riferisco alla dialettica tra gli apparati di sicurezza americani e quelli russi. Con gli americani che dicono di avere avvertito sul rischio attentati. E i russi che li accusano di aver fatto propaganda. Indipendentemente da chi abbia ragione, anche questo prepara il terreno a un’eventuale campagna di primavera, perché consente a Putin di dire che l’azione era preordinata, tant’è vero che persino gli americani avevano avvertito di questo rischio. Che avevano la notizia in anticipo. Qualora decidesse di agire, è un secondo elemento su cui potrebbe battere.
Quale deve essere il ruolo dell’Unione europea?
Indipendentemente da chi vince le elezioni americane, l’Unione europea si troverà a dover fare la propria parte in Ucraina, con l’obiettivo di mettere in condizione gli ucraini di potersi sedere a un eventuale tavolo di negoziato da una posizione la più forte possibile. Il supporto dell’Unione europea deve rafforzare gli ucraini a sufficienza per ripristinare uno status quo che renda indigesto allo zar, o per lo meno troppo oneroso, muoversi ulteriormente, prendendosi altri pezzi di Ucraina o addirittura di andare in Transnistria, minacciare l’Estonia o la Lettonia.
Le elezioni americane sono una variabile importante, ma a ben vedere l’Ue sarà chiamata a questo compito comunque vadano. Perché se vince Trump è prevedibile che dica agli ucraini, alla sua maniera conflittuale, di non essere più disposto ad aiutarli per cui devono trovare una forma di accomodamento. Trump chiamerà gli europei alle loro responsabilità. Ma anche se vince Biden accadrà qualcosa di simile. Il Congresso sarà diviso e non mi sembra che ci sia più appetito in America di andare ad un aiuto illimitato verso l’Ucraina. Nel caso in cui vinca Biden accadrà più gradualmente rispetto a una vittoria di Trump, ma l’Europa sarà comunque chiamata ad assumersi quel tipo di responsabilità. Essere cioè un attore concreto contro l’aggressore: contribuire a mettere l’Ucraina in sicurezza e ristabilire la deterrenza sufficiente a trattenere Mosca da altre avventure.
Alfonso Raimo
[ huffingtonpost.it ]