martedì, 26 Novembre 2024

Giappone, la nuova era della monarchia

Erin Blakemore (NATIONAL GEOGRAPHIC ITALIA)

In questa foto ufficiale, l’imperatore giapponese Akihito e l’imperatrice Michiko, al centro, sorridono circondati dai due figli maschi, dalle nuore e dai nipoti. Sono raffigurati da sinistra, la principessa Masako, il principe ereditario Naruhito, la principessa Mako, la principessa Aiko, la principessa Kako, il principe Akishino, il principe Hisahito e la principessa Kiko. Fotografia di Kurita Kaku, Gamma-Rapho / Getty 

Per oltre 2.600 anni una stessa famiglia ha regnato sul Giappone. In quanto più antica dinastia ereditaria al mondo – un tempo venerata per il suo legame con le divinità dello Shintoismo – la monarchia giapponese esiste, e resiste, dal 660 a.C. circa, anche se le “prove fisiche” del suo regno si fanno risalire, circa, al 300 d.C.

Oggi la casa imperiale del Giappone ha un ruolo simbolico, e nessun potere esecutivo o militare, all’interno dello Stato. Malgrado ciò, conserva il forte rispetto delle tradizioni.

La monarchia giapponese si fa risalire all’imperatore Jimmu, che presumibilmente diede inizio al suo impero nel 660 a.C., dopo una guerra con alcuni capi locali. Tuttavia Jimmu è perlopiù considerato una figura simbolica e leggendaria. Gli studiosi ipotizzano che la figura di Jimmu, considerato un discendente della Dea del Sole, rappresenti l’affermarsi della cultura Yayoi – legata ai primi coltivatori di riso del Giappone – e di come questa si diffuse nella regione di Yamato. Il giorno dell’ascesa al trono di Jimmu, l’11 febbraio è ora celebrato come Festa di Fondazione della Nazione.

I discendenti di Jimmu regnarono su un regno in espansione. Nel corso dei secoli, i poteri dell’imperatore del Giappone subirono diverse modifiche. A partire dal VI secolo d.C. si iniziò a credere che l’imperatore fosse in contatto con gli dei, sebbene ciò non si traducesse di fatto in potere politico. In diverse fasi della storia giapponese, l’imperatore è stato visto come una manifestazione degli dei, ma non adorato come un dio in sé.

Dal X secolo d.C., mentre cresceva l’importanza della classe elitaria dei samurai, l’influenza della monarchia diminuì, in parte a causa dell’incapacità degli imperatori ereditari di governare la loro gente da Kyoto, sede tradizionale della casa reale.

Lo shogunato, il sistema di governo militare ereditario del Giappone, governò in modo efficace per conto dell’impero fino al XIX secolo.

Durante la Restaurazione Meiji, nel 1868, il sistema cambiò. L’imperatore Meiji trasferì la monarchia a Tokyo, mettendo fine allo shogunato, e la monarchia governò su uno stato più centralizzato. L’imperatore del Giappone era passato da un ruolo largamente simbolico alla gestione diretta del potere.L

Dopo la Seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti costrinsero l’imperatore Hirohito (1901-1989), nel cui nome il Giappone aveva combattuto gli Alleati, a rinunciare a qualsiasi pretesa di legame con la divinità. Hirohito contribuì anche a dare legittimità alla nuova costituzione giapponese del 1947, che abolì l’aristocrazia, voltò le spalle al concetto di espansione imperiale e rese lo stesso imperatore una figura puramente simbolica.

La famiglia imperiale giapponese conta oggi solo 18 membri e la sua continuità dinastica è minacciata dall’applicazione della legge salica, che vieta alle donne di ereditare il trono. Anche se i sovrani giapponesi hanno tradizionalmente governato fino alla loro morte, l’imperatore Akihito ha abdicato il 30 aprile in favore del principe ereditario Naruhito – dal 1 maggio imperatore – a causa delle preoccupazioni per la sua salute ed età.

Sebbene ci siano state imperatrici del Giappone, la regola della successione esclusivamente maschile continua per ora a sussistere, e Aiko, figlia unica del futuro imperatore Naruhito, non potrà regnare. Nella linea di successione diretta vengono il principe Akishino e suo figlio Hisahito.

Al governo giapponese è stato assegnato il compito di elaborare soluzioni per quella che è vista come una crisi crescente, ma non è chiaro se l’esecutivo sarà disposto a modificare una tradizione radicata.

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