A leggere i dati, diffusi dall’ Istat alla fine dell’anno nel suo Annuario statistico 2017, sul rapporto degli italiani con la cultura sembra proprio che alle prossime elezioni sia chiamato a votare un popolo di elettori, a non dire altro, culturalmente inappetente. Come è facile prevedere questo dato è più marcato al Sud che al Nord, e tra i giovani più che tra le persone anziane. Per quanto infatti le cifre relative alla fruizione culturale nel nostro paese mostrino, come usa dire, un andamento positivo negli ultimi anni, fa impressione dover constatare la vastità dell’area della cosiddetta non partecipazione.
I nostri connazionali che non svolgono nessuna attività culturale, per quanto semplice e occasionale essa sia, ammontano a quasi il venti per cento. E non si tratta solo di musei, mostre o siti archeologici, ma del semplice sfogliare un giornale, andare al cinema, o persino in discoteca. Al Sud, questo numero sfiora il trenta per cento. Ma non è questo il dato più significativo. Considerate una alla volta, le occasioni della partecipazione culturale permettono di misurare un fenomeno ben più profondo e allarmante. Nonostante il boom turistico di cui meniamo vanto, 67 italiani su cento nel 2016 non hanno mai frequentato né un museo né una mostra (al Sud sono quasi 78). Siti archeologici e monumenti sono del tutto ignorati dal 73,2 percento dei nostri connazionali, che diventano quasi ottanta nelle regioni meridionali.
L’abisso si spalanca nel caso della musica classica. Qui la separazione degli italiani da una sezione della cultura che pure custodisce una parte cospicua della loro identità storica (per non dire del comune patrimonio culturale europeo) assume proporzioni pressoché totalitarie. Quasi il novanta percento non ha mai ascoltato una nota di Bach, Mozart, Beethoven, o un’ opera di Verdi e di Puccini. Ottanta italiani su cento non sono mai andati a teatro.
Se la democrazia è l’arte civile del discorso, ebbene siamo di fronte ad una spaventosa penuria degli elementi costitutivi di qualsiasi grammatica della vita pubblica. Prendete la drammatica situazione in cui versa la lettura, a cominciare da quella dei giornali quotidiani. Nel 2016, quasi il cinquantacinque per cento degli italiani non ha mai letto un quotidiano nell’ arco di una settimana. E i numeri sono ulteriormente peggiorati rispetto al 2015. Gli adolescenti praticamente non conoscono il giornale.
L’ ottantotto percento dei diciassettenni non lo legge nemmeno una volta la settimana. A ventiquattro anni questa fetta si riduce al sessantacinque per cento e arriva faticosamente alla metà tra i trenta e i quarant’anni. Praticamente in Italia, la lettura del giornale è oggi un fenomeno residuale della vita adulta. Di adulti, è bene ricordarlo, che sono nati tra gli anni Sessanta e Settanta e la cui socializzazione politica è avvenuta in quella estrema coda del Sessantotto che fu l’ambiente scolastico degli anni Ottanta. Che sarà dei giornali quando gli attuali adolescenti saranno cresciuti? E che sarà a loro volta di questi adulti che non hanno avuto nella loro formazione la minima occasione di familiarizzare con i principi elementari del discorso politico?
Per quanto riguarda i libri, quasi sei italiani su dieci non ne hanno letto nemmeno uno in 12 mesi. I numeri relativi sono in caduta almeno dal 2010 e nel 2016 i dati si sono attestati al livello del 2001. Praticamente, siamo tornati indietro di sedici anni. La perdita riguarda, come è facile prevedere anche in questo caso, in modo particolare i più giovani. Altro che i ragazzi del ’99 evocati dal presidente Mattarella. Nel giro di un anno gli adolescenti che hanno letto almeno un libro sono scesi di sette punti percentuali, dal 54 del 2015 al 47 del 2016. Appena più contenuta la perdita registrata tra coloro che hanno dai 20 ai 24 anni. I lettori diminuiscono tanto tra i laureati che tra i diplomati. E a parità di titolo di studio, sono maggiori tra gli over 65 che tra i trentenni e i quarantenni. Forse perché gli anziani hanno più tempo a disposizione e forse perché il tempo a disposizione dei quarantenni è catturato dai nuovi media. Fatto sta che gli italiani più attivi sono anche i meno interessati a leggere.
È bene fermarsi sul rapporto tra libri e tecnologia. Non basta infatti dire che lo Smartphone fa concorrenza al libro. Chi non legge non legge nemmeno online, né tanto meno scarica libri in formato digitale. Esiste cioè un legame positivo tra partecipazione culturale e un uso colto dei nuovi media. Chi al contrario è sprovvisto di mezzi culturali sofisticati è anche condannato ad un uso ripetitivo, meramente consumistico della tecnologia. Da noi, questo uso comincia prestissimo. Tutti i dati a cui abbiamo fatto prima riferimento sono rilevati dall’ Istat a partire dai sei anni di età. Per quanto riguarda invece l’uso dei mezzi elettronici la classe di età si abbassa a tre anni. La familiarizzazione con i nuovi media in Italia è precocissima e questo ha un effetto significativo nel determinare il tipo di rapporto che gli adolescenti stabiliscono con la sfera culturale.
Se questa è la nostra vicenda pubblica a partire almeno dall’ inizio del nuovo secolo, bisogna provare ad abbozzare gli elementi di una risposta alla semplice domanda come è stato possibile, insomma perché abbiamo fatto questa fine?
La sistematica demolizione della scuola nazionale in questi ultimi vent’anni ha sicuramente giocato il ruolo principale. È difficile non cogliere, ad esempio, il nesso che questi dati evidenziano tra la promulgazione del mito della digitalizzazione della didattica e la corrispondente svalutazione della parola stampata e dello studio sistematico e rigoroso che al primato del libro, nella sua forma gutenberghiana, da almeno cinquecento anni è connesso.
Più in generale l’elevazione nella società italiana del cambiamento a vero e proprio mito etico politico ha legittimato, insieme ad un modello di consumo orientato all’accesso compulsivo alla telefonia mobile, tutta una serie di prassi pseudo-professionali che hanno finito per disarticolare l’ambito di esercizio di molte delle professioni reali che un tempo richiedevano percorsi formativi strutturati e altamente selettivi. Se ai giovani è stata venduta l’illusione che con un buon cellulare si possono fare accurati reportage giornalistici, o con internet si può incidere efficacemente sulla realtà e trasformarla, come si fa poi ad esigere da questi stessi giovani un apprendistato professionale rigoroso? Come si fa, a fargli capire, ad esempio, che la politica non è una gara a chi ha l’idea più brillante circa il problema della gestione condominiale dell’ immondizia? Che cosa diventa sulla base di questi presupposti una redazione giornalistica o l’aula del parlamento? Gli esiti sono sotto gli occhi di tutti.
Persa dietro una versione tanto corriva dell’innovazione, l’Italia in questi vent’anni ha così mancato l’occasione di pensare le basi per la rinnovata formazione di un professionismo a livello di massa e, soprattutto, per dare al paese quello che un tempo si chiamava il suo tono civile; un tono che sia all’ altezza della sua storia pubblica certo drammatica, complessa, ma mai disprezzabile.