«Nell’ arco dei prossimi cinque anni, la porzione del reddito globale posseduta dai Paesi considerati non liberi, come Cina, Russia e Arabia Saudita, supererà quella delle democrazie liberali occidentali».
L’ allarme viene dalla rivista Foreign Affairs, che ha dedicato la sua ultima copertina al pericolo di vita in cui versa l’ ordinamento politico vincitore del secolo scorso. L’ argomento più preoccupante, però, riguarda proprio il declino economico dei Paesi liberi, perché da qui potrebbe derivare il collasso generale in tutti gli altri campi.
I ragionamenti sulla crisi della democrazia sono ormai molto diffusi, perché i segnali sono evidenti: l’ autocrazia rampante in Cina; il successo degli «uomini forti» tipo Putin o Erdogan; l’ ondata populista; le democrazie illiberali in Europa orientale; Trump che si augura di fare il presidente a vita; e poi le fake news, le minacce alla libertà di stampa, i furti di dati che fanno dubitare anche della liberalissima Silicon Valley. A fronte di tante paure non mancano gli ottimisti, come lo psicologo di Harvard Steven Pinker, che nel suo ultimo libro «Enlightenment Now» sostiene che in realtà viviamo nell’ epoca più pacifica e prospera di sempre. Ma sono in minoranza.
In questo clima, la rivista del Council on Foreign Relations ha dedicato la copertina ad una domanda: «Is Democracy Dying?» (La democrazia sta morendo?). Gli argomenti per il sì sono noti, ma forse il saggio più preoccupante è quello di Yascha Mounk e Roberto Stefan Foa. Si intitola «The End of the Democratic Century», e sostiene che le democrazie stanno perdendo perché non sono più capaci di garantire ai loro cittadini la migliore qualità della vita al mondo.
Durante il secolo scorso la forza dei sistemi liberali era consistita nell’ attrattiva della loro ideologia, ma l’ elemento che aveva fatto davvero la differenza era stata la forza economica. Anche quando era arrivato al suo picco, il blocco sovietico non aveva mai superato il 13% del reddito globale. L’ alleanza occidentale invece era sempre sopra al 50%. Con questa ricchezza era venuto un forte appeal, che andava dal soft power culturale all’ hard power militare. L’ opulenza mostrata dal telefilm «Dallas» aveva messo in ginocchio l’ Urss quasi quanto la corsa alle guerre stellari di Reagan.
L’ attrattiva di istituzioni come la Ue e la Wto aveva spinto Paesi tipo Turchia e Corea del Sud a riformarsi, mentre le sanzioni economiche avevano piegato dittatori come Saddam e Milosevic. Ora però tutto questo sta cambiando: due terzi degli americani sopra i 65 anni considerano la democrazia irrinunciabile, ma solo un terzo di quelli sotto i 35 anni la pensa così. Dal 1995 al 2017 gli italiani, francesi e tedeschi favorevoli ad una svolta autoritaria sono più che triplicati.
La causa principale di questi sentimenti, secondo gli autori, è che la democrazia appare confusa e incapace di favorire il benessere, mentre l’ autoritarismo garantisce stabilità e ora anche ricchezza. Secondo le stime dell’ Fmi, tra dieci anni l’ alleanza occidentale avrà solo un terzo del Pil globale. Nel 1990 i Paesi giudicati non liberi dalla Freedom House avevano il 12% del reddito globale; ora sono al 33%, e tra 5 anni supereranno le democrazie liberali. Tra i 15 Paesi al top in termini di reddito pro capite, quasi due terzi non sono democrazie. Tutto ciò ha dato coraggio a regimi come Cina e Russia, che ormai rivendicano la superiorità dei loro sistemi.
Lo dimostrano le interferenze elettorali di Mosca, che «in Italia ha finanziato per anni partiti estremisti di destra e sinistra», ma ormai possiede un «soft power autoritario».
Non tutto è perduto. I regimi autocratici hanno i loro problemi, e le democrazie liberali potrebbero salvarsi tornando a crescere, e risolvendo il problema della disuguaglianza. Se questo non avverrà, però, «o le autocrazie diventeranno liberali, oppure la democrazia liberale si trasformerà in una parentesi della storia»