Uno è di Avellino come De Mita, l’altro milanese come Craxi. Uno è figlio di un militante missino e ha fatto il pieno di voti al Sud e a sinistra, l’altro fu comunista padano ed è il capo della nuova destra nazionalista. Non sono neppure della stessa generazione: li separano tredici anni; non hanno visto gli stessi film, ascoltato la stessa musica, letto gli stessi libri (pochini, i libri). Eppure si sono incontrati e si sono riconosciuti. Luigi Di Maio e Matteo Salvini si piacciono. Si capiscono. E si prendono.
Il governo che forse sta per nascere non assomiglia a nessuno dei tanti che reggono le democrazie occidentali. Esistono altri governi populisti e sovranisti; si pensi a Trump; che però ha dietro la macchina del partito repubblicano e l’establishment militare della più grande potenza mondiale; infatti non amministra con Steve Bannon ma con i generali. Il governo Di Maio-Salvini si regge innanzitutto sulla psicologia dei due leader, e sul modo in cui si è intrecciata sino a costruire un’alleanza: improbabile, per certi versi rischiosa; eppure l’unica risultata possibile. Sono i primi due politici WhatsApp della nostra Repubblica. Berlusconi non ha neppure il cellulare. Renzi lo usa compulsivamente, finendo per alimentare il suo solipsismo e quindi la sua solitudine. Di Maio e Salvini chattano tra loro come diavoli. «Mi messaggio più con Luigi che con mia madre» dice Matteo. «Il mio telefonino è sempre acceso, anche la notte» gli fa eco l’altro. Ogni tanto si vedono di persona in incontri velocissimi: si parlano otto minuti e subito s’intendono.
Non sentono la tradizionale necessità di farsi fotografare insieme; al più, se e quando stringeranno l’accordo definitivo, si faranno un selfie e lo metteranno sulle rispettive pagine Facebook, più seguite di quelle di Macron e Theresa May. Sono nuovissimi e nello stesso tempo antichi. Basta leggere il comunicato congiunto di ieri, infarcito di «nell’ottica» e «passi avanti sostanziali»: politichese puro. Saranno anche giovani e antisistema; ma a tenerli insieme è il potere. Non si accontentano di sovvertire il vecchio establishment; vogliono prenderne il posto. Neppure Mattarella (che si trova meglio con Di Maio e comunque avrebbe preferito i populisti al potere uno alla volta, non tutti e due insieme) è riuscito a dividerli. Resta da stabilire chi comanda all’interno della coppia.
A dispetto delle dichiarazioni, il vero nodo è decidere chi va a Palazzo Chigi. Probabilmente né un grillino né un leghista; perché né Luigi né Matteo amano l’idea di cedere il passo a un compagno di partito, pardon di movimento, e preferirebbero un premier il cui nome assomigliasse un po’ più al loro. Anche se l’idea della staffetta richiama troppo De Mita-Craxi. Resta da capire pure chi comanda davvero nei Cinque Stelle (chi comandi nella Lega si capisce benissimo). Di Maio si è rivelato abile; ma non riesce a dissolvere del tutto l’impressione di recitare una parte mandata a memoria. Di sicuro è saldo il suo asse con Davide Casaleggio, l’azienda, la piattaforma, l’algoritmo; ma Luigi non può fallire, perché ha Grillo, Di Battista e l’ala dura appollaiati sulla spalla, pronti a riprendersi la scena. Di Maio in effetti è tra i due quello che rischia di più. Salvini ha il futuro davanti: dopo la resa di Berlusconi è più che mai il capo del centrodestra, lo schieramento storicamente maggioritario nel nostro Paese.
Ma i Cinque Stelle, alleandosi con un partito di destra dura, con Centinaio che il 25 aprile festeggia solo San Marco, con Siri e Borghi che vogliono tagliare le tasse al 15%, con Borghezio e altri personaggi in odore di xenofobia, perdono la loro trasversalità. E quando gli antisistema vengono schiacciati troppo a destra, come Marine Le Pen (o troppo a sinistra, come Podemos), il 33% non lo prendono più. Qualche rischio, però, lo corre pure il Paese. Cinque Stelle e Lega hanno promesso tutto a tutti. Hanno fatto la campagna elettorale sui provvedimenti di spesa — il reddito di cittadinanza o come si chiama adesso — o sui mancati introiti, dall’abolizione della Fornero alla flat tax alla cancellazione degli studi di settore.
O i sovranisti faranno le cose che hanno promesso, aprendo una voragine nel bilancio dello Stato; o non le faranno, perdendo voti. È quel che sperano Renzi e Berlusconi, nel loro calcolo un po’ disperato e un po’ cinico che si può così riassumere: gli italiani hanno voluto questi dilettanti senz’arte né parte e li avranno; tanto andranno a sbattere, e saremo richiamati noi. Ma nel frattempo il conto rischiano di pagarlo i cittadini. Perché il mondo globale, l’Europa, i mercati internazionali possono non piacerci; ma esistono. Niente paura, però: i dioscuri del terzo millennio si preparano ad adeguarsi anche a loro.