Non sappiamo se i cosiddetti «femminicidi» siano in aumento, come la ridondanza delle cronache lascerebbe supporre. Di certo sono diventati più efferati, selvaggi ed eclatanti. Dalla giovane uccisa a coltellate e poi scaraventata in un pozzo, alla donna assassinata davanti alla scuola o all’ingresso in fabbrica. Una ritualità che si ripete con similitudini impressionanti. Un copione non scritto interpretato in vario modo ma per una tragedia sempre uguale a se stessa. Al centro una separazione non accettata dal coniuge maschio. Quasi sempre coppie molto giovani e di diversa estrazione sociale, per cui censo, cultura o ambiente di vita non sono elementi rilevanti. A determinare il malessere letale all’interno della coppia sono spessissimo la gelosia e i modi violenti di lui. Di fronte all’idea di separarsi non si accetta innanzitutto la decisione in sé, vissuta come una sconfitta; l’idea di «perdere» i figli, visti come oggetti posseduti e, alla fine, l’angoscia della solitudine.
Da qualche tempo, grazie anche alle innovazioni legislative – ancorché insufficienti – è aumentato il numero delle donne che denunciano le violenze e gli abusi, soprattutto nella fase che precede la separazione vera e proprio. Ed è proprio in questo momento che si concentrano la maggior parte degli omicidi. Di fronte all’escalation di mogli e fidanzate massacrate è opportuno interrogarsi sul ruolo svolto dai media. Perché se da un lato questo genere di notizie rompe un tabù antico, spingendo le potenziali vittime a parlare e a denunciare prima che sia troppo tardi, dall’altro rischia di incentivare il fenomeno omicida.
È noto infatti che alcuni reati, come il suicidio o il lancio di sassi dai cavalcavia, possono indurre soggetti particolarmente fragili, provati o comunque sensibili, a commettere le stesse azioni di cui hanno visto e sentito parlare in televisione, sui giornali o su internet. Si chiama effetto emulazione e si verifica tanto per fatti positivi che negativi. Per esempio quando attorno a una disciplina sportiva si crea una risonanza mediatica perché c’è un atleta particolarmente bravo o perché ci sono una serie di gare molto avvincenti, ecco che all’improvviso aumentano i praticanti di quella disciplina. Ma lo stesso vale se il proprio idolo canoro indossa un abbigliamento particolare o suona uno strumento di una certa marca. Tutti imitano quel modo di vestire o acquistano quegli strumenti.
Allo stesso modo quando si è convinti di essere in una situazione analoga al protagonista di una vicenda di cronaca nera, ci si identifica in lui e si pensa che l’unica via d’uscita sia fare come lui: ammazzare la compagna e, purtroppo con sempre maggiore frequenza, anche i figli. Come è accaduto pochi giorni fa a Cisterna di Latina, dove un carabiniere ha prima sparato alla moglie dinanzi alla fabbrica dove andava a lavorare e poi è andato in casa e, senza un filo di pietà, ha ucciso le due figlie. Dopodiché, come spesso accade, si è tolto la vita. Quasi a volere chiudere una partita con l’esistenza, una sorta di giustiziere del destino che scompare dopo la sua macabra missione.
Questi casi non solo sono al centro delle cronache quotidiane, come è purtroppo inevitabile che sia. Ma vengono presi e analizzati, vivisezionati, scandagliati e comunque riproposti in tutti i modi possibili, dalle decine di programmi televisivi che si occupano di vicende di cronaca nera. Basti pensare che ancora oggi si realizzano trasmissioni, sorrette da notevole successo di pubblico, che tornano sull’omicidio di Sarah Scazzi. Ma l’audience non può essere l’unico elemento di valutazione. In questi casi occorre interpellare anche la morale.
La riproposizione continua di vicende violente scava come l’acqua sulla pietra le menti di soggetti in situazioni di fragilità. Ma non è solo la ripetitività a poter provocare un effetto emulazione. C’è da considerare anche la mole di dettagli che vengono forniti sia dalle cronache quotidiane che dai cosiddetti programmi di approfondimento. Soffermarsi sulle strategie messe in atto per ingannare la vittima e costringerla magari ad accettare un incontro di «chiarimento»; il racconto minuzioso delle modalità dell’uccisione con dettagli da perizia necroscopica; la spettacolarità del delitto stesso talvolta illustrata utilizzando attori, sono elementi psicologicamente molto incisivi che aumentano il rischio emulazione.
Ciò non significa che sui femminicidi debba tornare ad aleggiare il silenzio, come quando erano rubricati come «delitti d’onore». Per carità. Però bisogna interrogarsi tutti – dagli psicologi ai giornalisti, dai magistrati agli assistenti sociali – se parlare, riparlare e straparlare di femminicidi non possa indurre qualcuno a uccidere a sua volta. Sarebbe imperdonabile.
Dopo aver infranto il tabù del silenzio, bisognerebbe infrangere un altro tabù: quello della cronaca ricca di troppi particolari non essenziali, che quasi sfiora il compiacimento morboso.