Meno male che Sergio c’è. Meno male che il presidente della Repubblica, da attento custode della Costituzione, vigila, come può, sui conti pubblici e sui racconti giudiziari. Altrimenti la confusione derivante dall’inosservanza delle regole e dallo stravolgimento dell’etica più elementare raggiungerebbe vette siderali. Meno male che Mattarella va avanti per la sua strada incurante dei rilievi di quanti gli addebitano un protagonismo che altro non è che il richiamo alla legge fondamentale dello Stato.
La Costituzione è il primo baluardo contro la finanza pubblica allegra, visto che prescrive l’equilibrio di bilancio. E il presidente della Repubblica non può far finta di nulla se questo precetto viene aggirato (e beffato) con la disinvoltura di un ballerino.
Così come è sempre la Costituzione a scolpire i compiti della magistratura, affidando al Capo dello Stato la presidenza del Csm, ossia dell’organo che assicura l’autonomia dell’ordine giudiziario. E l’inquilino del Quirinale non può rimanere alla finestra se alcuni componenti del Csm si comportano come mercanti di un suk arabo o se il settore della giustizia si autopoliticizza, o si autolottizza, come un’Usl della Prima Repubblica. Costituzione alla mano, è compito, dovere del Colle intervenire, senza se e senza ma, anche a costo di incorrere nelle ire di quanti concepiscono la figura del Capo dello Stato alla stregua di una statua egizia.
Perché, oggi più di ieri, il rispetto della deontologia giudiziaria è essenziale per il buon funzionamento del sistema e della medesima democrazia? Semplice. Perché oggi la reputazione del cittadino dipende non solo dal processo giudiziario, ma, anche o soprattutto, dai dilaganti processi mediatici.
E siccome processo giudiziario e processo mediatico, perlomeno nella prima fase del loro sviluppo, quasi si identificano e si confondono, l’obbligo di attenersi all’ordinamento e di selezionare al meglio (cioè senza invasioni correntizie) gli incaricati della magistratura giudicante e della magistratura requirente è fondamentale come l’aria.
Il processo mediatico, che ha incontrato nello strapotere del web il suo più insidioso alleato, mira a espropriare la giurisdizione ai giudici: di fatto i giudici non sono più liberi di decidere, sia che l’influenza dall’esterno li conduca al plauso sia che li conduca alla gogna.
Si vede. Alcune sentenze sembrano risentire del clima generale, di come l’opinione pubblica è stata orientata, di quale è il pensiero prevalente. Invece servirebbe l’autonomia assoluta della giurisdizione, alla cui tutela è preposto il Csm che, invece, alla luce delle conferme ulteriori fornite dal trojan, appare sempre più un consesso concentrato a pianificare carriere e a distribuire potentati.
Il paradosso è che oggi il processo mediatico (spettacolarizzazione e sofferenza) è scattato sul caso Csm-nomine, prima ancora di una qualsiasi tappa formale, contro gli stessi magistrati, sottoposti anche loro a una sorta di giudizio o pregiudizio parallelo, o alternativo, sùbito avviato sui mezzi di comunicazione.
Se, sosteneva il grande penalista Francesco Carnelutti (1879-1965), il processo giudiziario è una tortura, figuriamoci cosa il celebre avvocato avrebbe detto ora sul processo mediatico, che, nei fatti, si fonda sulla presunzione di colpevolezza anziché di non colpevolezza.
Il processo mediatico è di per sé inquisitorio (l’indagato viene sùbito rappresentato come colpevole) mentre il processo ordinario è di tipo accusatorio (essenziale il contraddittorio). Il dubbio, poi, sempre nel processo mediatico, viene ritenuto una presunzione di colpevolezza. Ma il processo penale – raccomandava il giurista Francesco Carrara (1805-1888) – dev’essere visto come fonte di garanzie, non come strumento per presentare in anticipo una condanna. Il diritto penale deve raffreddare, sbollire le passioni, non deve riscaldarle come una macchina per il caffè. Inoltre chi legifera, direbbe oggi un redivivo Carrara (che già se ne lamentava ai suoi tempi), dovrebbe guardarsi bene dal pericolo di cadere nella tentazione della nomorrea penale, ossia in un’attività normativa più prolifica di una coppia di conigli. Il che si verifica da decenni battendo un record dopo l’altro.
Ecco. Proprio perché bisogna impedire che l’amministrazione della giustizia possa sfociare nella costruzione di una potente macchina di dolore umano, è indispensabile che, pure per le nomine dei magistrati, la moglie di Cesare sia al di sopra di ogni sospetto e che Cesare sia ancora più insospettabile.
La vicenda del Csm ha dimostrato che, contrariamente al titolo di un celebre film del regista Elio Petri (1929-1982) – il ruolo del protagonista era interpretato da uno strepitoso Gian Maria Volontè (1933-1994) – , non ci sono cittadini al di sopra di ogni sospetto. Il che è un bene che va però tradotto in atti concreti, in riforme felici, proprio per evitare (a tutela di tutti i protagonisti del processo ordinario) che, a cascata, una selezione non meritocratica dei gradi della magistratura possa minare la correttezza della giurisdizione, ultimamente, abbiamo visto, sempre più esposta al rischio esproprio da parte del combinato disposto tra spettacolarizzazione/sensazionalismo e preconcetto di colpevolezza.
È stata avanzata la proposta del sorteggio (ovviamente tra esperti titolati non tra incompetenti peones) per sottrarre alle trame di corrente le designazioni negli uffici giudiziari. C’è chi dice sì e c’è chi dice no. Forse il sorteggio potrebbe spezzare cordate e giochi di potere, come accadde, ad esempio su altri fronti, per il campionato italiano di calcio in occasione degli scudetti vinti dal Cagliari (1970) e dal Verona (1985): due squadre di provincia. In quei due anni gli arbitri erano stati scelti dal sorteggio, non dal designatore. Ma il calcio è un’altra storia.
Comunque. Molto, per il futuro del Csm, dipenderà da Mattarella, dalla sua moral persuasion. Di sicuro il sistema di autogoverno dei giudici ha bisogno di una revisione, come si fa con le autovetture ad alto chilometraggio. La giustizia è la principale infrastruttura civile del Paese. Se, nella considerazione estera e interna, precipita la giustizia, precipitano anche gli investimenti che generano sviluppo.
L’impressione è che gli ultimi 30 mesi di Mattarella al Quirinale richiederanno un supplemento di lavoro, un impegno doppio da parte del Presidente, sempre alla ricerca del giusto equilibrio. In ogni caso, tra economia e giustizia non sarà facile, per lui, ritagliarsi un giorno di vacanza.