Chi è Jair Bolsonaro? Ex capitano dell’esercito, paracadutista, diplomatosi all’accademia militare di Agulhas Negras, Jair Messias Bolsonaro (classe 1955, discendente da famiglia italiana) ha appena concluso il suo settimo mandato come deputato federale eletto nello Stato di Rio de Janeiro. I suoi 30 anni di carriera politica lo hanno visto cambiare partito otto volte fino ad approdare al nazional-conservatore Partido Social Liberal (PSL), del quale fu nel 2014 il deputato più votato del paese. Considerato negli anni un personaggio minore, pittoresco e quasi folkloristico, Bolsonaro era noto soprattutto per le sue dichiarazioni contro le donne, gli omosessuali e le persone di colore, il suo disprezzo per le minoranze e il suo sostegno alle politiche del pugno duro contro i criminali e alla liberalizzazione del porto d’armi: posizioni radicali che oggi non sono affatto venute meno e che anzi, pur avendo portato migliaia di donne a manifestare nelle più importanti città brasiliane al grido di “ele não” (lui no), sembrano essergli valse il consenso della maggioranza dell’elettorato.
Curiosamente, nonostante in trent’anni e sette mandati al Congresso abbia presentato circa 170 proposte di legge, sinora il president-elect brasiliano era riuscito a farne votare solo due. Resta ora da vedere se, investito della più alta responsabilità che il paese possa affidargli, l’uomo che era entrato in politica per difendere dai tagli agli stipendi l’esercito da cui proveniva e che oggi promette di riportare “ordine e progresso” in un paese sconvolto da violenza, corruzione e da una difficilissima ripresa economica riuscirà a passare dalle parole ai fatti.
Una campagna “scorretta” al momento giusto?
Il successo di Bolsonaro è attribuito da molti analisti principalmente al modo diretto, per alcuni primitivo e brutale, con cui in campagna elettorale ha promesso di risolvere i grandi problemi del Brasile: la corruzione politica, la violenza criminale e la crisi economica. Una strategia di comunicazione incalzante e capillare, caratterizzata da una semplificazione estrema delle problematiche più complesse del paese più grande dell’America Latina. I suoi messaggi sono stati veicolati solo in minima parte dalla “vecchia” propaganda televisiva su cui hanno fatto affidamento molti degli altri candidati: con solo 9 secondi al giorno di tempo televisivo disponibile, in un paese che è il terzo al mondo per profili Facebook, il neo-presidente ha affidato i suoi messaggi soprattutto ai social media e a decine di migliaia di messaggi diretti su WhatsApp (120 milioni di utenti in Brasile), letteralmente “inondando” di propaganda e fake news– spesso riguardanti proprio i suoi stessi concorrenti – i cittadini brasiliani.
Gli atteggiamenti estremisti del neo-eletto presidente si sono accentuati dopo l’attentato di cui è stato vittima lo scorso 6 settembre, durante un comizio elettorale nello stato di Minas Gerais. Nonostante la gravità dell’accaduto, l’episodio sembra aver contribuito positivamente alla sua campagna elettorale, risparmiandogli molti confronti televisivi diretti con gli altri candidati, che però – in virtù delle sue posizioni e dichiarazioni spesso politicamente scorrette e scioccanti – ne hanno fatto l’oggetto stesso dei loro dibattiti.
La comunicazione di Bolsonaro è stata tesa a convincere, almeno inizialmente, i gruppi sociali essenziali alla sua vittoria: la “destra nostalgica” a cui manca la sicurezza dei tempi della dittatura militare, la “destra evangelica” a cui sono stati promessi diritti sociali e la “destra liberale” che da tempo combatte contro l’anemia economica del gigante lusofono. L’unione di questi tre gruppi ha rappresentato il volano che ha poi convinto i molti elettori ancora indecisi.
È innegabile che, forse come Trump, il neo-presidente brasiliano ha saputo mettersi in gioco nel momento a lui più propizio: con Lula, il principale rivale, in carcere e impossibilitato a non più candidabile, un tasso di violenza criminale altissimo (più di 63.000 gli omicidi nel 2017) e un elettorato profondamente deluso dalla classe politica (in un sondaggio dell’anno scorso solo il 13% dei brasiliani si è detto soddisfatto della propria democrazia), Bolsonaro è riuscito a presentarsi come un’alternativa radicale e “ordinatrice” al caos e all’incertezza che sempre di più sembrano frustrare i cittadini brasiliani.
Brasile, ancora un gigante in crisi?
Il Brasile si sta solo lentamente riprendendo dalla più grave recessione economica della sua storia: tra il 2015 e il 2017 il PIL si è contratto di circa il 7%. Tuttavia, la ripresa c’è e i fondamentali macroeconomici del paese appaiono buoni: il Brasile è la ottava economia al mondo, grande all’incirca come l’Italia in termini di PIL (2000 miliardi di dollari), l’inflazione è tornata su livelli contenuti (3,7%, dopo il 9% all’anno di 2015 e 2016), e il tasso di crescita economica è tornato positivo (1,4%).
Il punto debole dal punto di vista macroeconomico è però la finanza pubblica. Bolsonaro si troverà infatti a gestire un paese con un disavanzo di bilancio ancora molto elevato (vicino al -9% del PIL) e un debito che negli ultimi 3 anni è aumentato in maniera preoccupante di circa il 20% in rapporto al PIL, arrivando a superare l’80% del PIL.
Bolsonaro ha già annunciato che ha intenzione di portare il prima possibile il bilancio in pareggio. Come? Principalmente con tagli alla spesa pubblica. Saranno però necessari ulteriori e ben più pesanti tagli alla spesa nel caso il neo-eletto presidente volesse mantenere la promessa elettorale di abbassare le tasse. I tagli di spesa potranno provenire, forse, anche dalla privatizzazione di ampi settori economici del Brasile oggi in mano, in tutto o in parte, allo Stato. Una ricetta neoliberista cavalcata dal suo consigliere economico Paolo Guedes.
La necessità di adottare una politica di “austerità” nel breve periodo presenta tuttavia non pochi rischi, soprattutto in un paese in cui la disuguaglianza resta a un livello tra i più elevati al mondo. Il necessario taglio della spesa pubblica non potrà che colpire le politiche più costose, che includono ovviamente le misure di welfare come le pensioni, la sanità pubblica e i sussidi di disoccupazione, che resta molto alta e si attesta attorno al 13%.
Cosa farà Bolsonaro?
Come spiega in questo commentary Anthony Pereira (King’s College Brazil Institute) Bolsonaro rappresenta l’ascesa di una destra ideologica diversa da quella “pragmatica” e “padronale” che fino a queste elezioni sembrava caratterizzare i partiti di destra che concorrevano al voto presidenziale. Piuttosto, Bolsonaro mette l’accento su Dio e il Cristianesimo evangelico, il patriarcato e la famiglia tradizionale, la libertà di possedere armi, la proprietà privata e il liberismo economico. “Morte ai banditi”, “più sicurezza per tutti”, “galera ai corrotti”, “armi a tutti i brasiliani per difendersi dai criminali”, “lottare perché il Brasile non faccia la fine del Venezuela” sono le promesse con cui Bolsonaro vuole guarire un Brasile deluso dalla classe politica, sempre più violento e ancora ferito dalla recessione economica.
Se i dettagli delle ricette economiche con cui Bolsonaro propone di riuscirci – privatizzazioni, tagli a tasse e spesa pubblica, liberalizzazioni, riforma delle pensioni, creazione di un super-ministero dell’economia – appaiono per il momento abbastanza vaghi (e, almeno nel principio, non sono del tutto invisi a investitori e mercati, che oggi si aspettano molto dalla sua vittoria), a preoccupare molti osservatoriè la prospettiva di come il nuovo presidente cercherà di tradurre in realtà le sue idee sulla sicurezza, l’educazione, l’ambiente e i diritti civili (qui il programma completo in PDF). Per far fronte alla piaga della criminalità e della violenza Bolsonaro propone per esempio l’abbassamento dell’età della responsabilità penale da 18 a 16 anni e una modifica della legge sul porto d’armi per far sì che sia più facile possederne; iniziative che verrebbero ad aggiungersi a una maggiore tutela giuridica delle forze dell’ordine volta a favorirne la discrezionalità. “Nessuno vuole che un poliziotto uccida”, ha spiegato in un’intervista alla rivista Time, “ma io voglio dargli carta bianca per non morire”.
Sostenuto dalla destra cristiana evangelica brasiliana, l’11 ottobre Bolsonaro ha firmato un accordo con un’associazione di elettori cattolici, in cui ha promesso di “difendere il vero senso del matrimonio come unione tra uomo e donna” e di “combattere l’ideologia gender”, a partire dai programmi scolastici. Sono messaggi chiari – da parte di un conservatore che, oltre a non nascondere il suo disprezzo per il genere femminile, non ha mancato di paragonare l’omosessualità con la pedofilia – che potrebbero presto trasformarsi in iniziative legislative contro i finanziamenti ai programmi antiviolenza per le donne e la comunità LGBTQ. Anche minoranze e ambiente sembrano essere nel mirino del nuovo presidente: in più occasioni si è scagliato per esempio contro le politiche di sostegno e le quote riservate ai gruppi sociali più svantaggiati e alle minoranze.
Infine, il presidente, appoggiato anche dalla potente lobby dei produttori agricoli brasiliani, ha minacciato di alleggerire le leggi sul disboscamento e di seguire Donald Trump nel ritiro dagli accordi di Parigi sul clima, salvo ritrattare pochi giorni fa in cambio di assicurazioni sulla piena sovranità del Brasile sulla “Tripla A”, un territorio di fondamentale importanza ambientale per il pianeta esteso dalle Ande, alla Foresta Amazzonica, all’Atlantico.
Dopo il voto: pericolo autoritario?
Nostalgico dichiarato della dittatura militare che ha governato il Brasile dal 1964 al 1985, Bolsonaro non ha perso occasione per dichiarare pubblicamente la propria ammirazione per altri leader autoritari (da ultimo il presidente filippino Rodrigo Duterte). In passato Bolsonaro si è spinto addirittura a promettere che, se fosse mai diventato presidente, avrebbe riportato il paese sotto il controllo dei militari sin “dal primo giorno”. La sua campagna elettorale è stata sostenuta attivamente da diverse figure chiave delle forze armate brasiliane e pochi anni fa il suo vice, il generale in pensione Antônio Hamilton Mourão, ha affermato che se il potere giudiziario non fosse stato capace di mettere ordine nel caos politico del paese, questo sarebbe stato imposto dall’esercito attraverso un intervento militare. Sono in molti, dunque, a temere che con la vittoria di Bolsonaro il Brasile corra ora davvero il rischio di tornare ai tempi della dittatura.
Tuttavia, come spiega Loris Zanatta (Università di Bologna), al di là delle proclamazioni ad effetto, è possibile che la carica eversiva di Jair Bolsonaro venga almeno in parte riassorbita sia dai grandi problemi strutturali del paese che il nuovo presidente dovrà affrontare con misure concrete, siadallo stesso sistema politico e istituzionale brasiliano.
Da un lato, la struttura stessa del Congresso Nazionale del Brasile, nel quale Bolsonaro non avrà una maggioranza assoluta, richiede infatti di costruire alleanze ampie e trasversali, e, soprattutto per le grandi riforme, di scendere a compromessi con altre forze politiche. Dall’altro, il sistema giudiziario brasiliano e la Corte Suprema del paese conservano, almeno per il momento, un elevato grado di autonomia. Infine, malgrado Bolsonaro abbia potuto contare sui consensi, non affatto nascosti, delle forze armate brasiliane, secondo diversi analisti è improbabile che il potere militare del paese voglia oggi prestarsi ad avventure autoritarie, anche nel caso in cui il nuovo presidente voglia davvero trasformare la sua nostalgia del passato in una realtà concreta.