Potrebbe essere il classico «cigno nero», cioè l’evento imprevedibile che cambia il corso della storia.
Armando Siri, leghista, sottosegretario alle Infrastrutture, è stato infatti raggiunto ieri da un avviso di garanzia per corruzione (una presunta tangente di trentamila euro) nell’ambito di un’inchiesta sull’eolico in Sicilia finito in mano alla mafia del capo boss Matteo Messina Denaro. Il suo capo, il ministro Toninelli, gli ha tolto le deleghe e Di Maio ne chiede le dimissioni immediate. Ma Matteo Salvini non ne vuole sentire parlare, Siri gode della sua fiducia e deve stare al governo fino a sentenza. Qui non parliamo della solita lite quotidiana per infiammare la campagna elettorale a proprio vantaggio.
No, questo è un caso serio e a prima vista irrisolvibile. Ed è un caso non costruito a tavolino direttamente dalla politica per fare ascolto, ma gettato in campo a sorpresa dalla magistratura che ancora una volta irrompe sulla scena elettorale per provare a condizionarne l’esito. Che questa inchiesta deflagri proprio oggi è quantomeno sospetto. Ed è inquietante che ciò avvenga lo stesso giorno in cui l’Espresso svela delle registrazioni dell’inchiesta sull’azienda rifiuti di Roma nelle quali la Raggi fa pressioni sull’ex ad dell’Ama per sistemare il bilancio in un certo modo. Un colpo alla Lega, l’altro ai Cinque Stelle: più che pareggiare i conti, sembrano fatti apposta per mettere entrambi con le spalle al muro. Di Maio non può permettere che Siri resti al suo posto, Salvini non può sacrificare Siri se quantomeno prima non ottiene la testa della Raggi (ipotesi assai remota). Morale: o saltano insieme Siri e la Raggi o a questo punto può davvero saltare il governo prima del previsto, perché il primo dei due che molla ha perso tutto. Non ci facciamo illusioni politiche.
Nel merito l’inchiesta su Siri appare come una delle tante bufale cui la magistratura ci ha abituato negli anni e la Raggi, almeno al momento, non è neppure indagata. Ma in questo governo la sostanza è un optional e la fragile tregua firmata sul caso Salvini-Diciotti tra i giustizialisti dei Cinque Stelle e i garantisti della Lega non può reggere l’urto di oggi. Entrambi i contendenti sono al bivio tra governo e dignità, la terza via non c’è. Questa volta il «cigno nero», chiunque esso sia, l’ha costruita bene.