L’Italia è un Paese costruito negli anni 60, abbandonato dagli anni 90, che ha cominciato a venir giù da dieci anni. E la ragione è che abbiamo smesso di credere nel progresso. Tutto ci sembra più importante: l’ambiente, l’austerità, i comitati dei cittadini, la Corte dei conti, la lotta agli sperperi e alla corruzione. C’è sempre una buona ragione per non fare nulla. Di questo cedimento strutturale è una triste testimonianza la polemica politica che si è accesa mentre ancora si tiravano fuori i morti.
Il ministro Toninelli, che governa da due mesi, dà la colpa alla mancata manutenzione delle infrastrutture da parte di chi governava prima, mentre chi governava prima dà la colpa a quelli come Toninelli che bloccano ogni nuova opera pubblica. Ma il guaio è che, da molti anni a questa parte, non si fanno né la manutenzione né le grandi opere. Mentre invece un paese moderno aggiusta ciò che si rompe mentre costruisce ciò che non si romperà per i prossimi cinquant’anni. Smettendo di progettare il futuro, stiamo perdendo anche il know how per gestire ciò che avevamo. Chiusa l’industria chimica, finiti i Nobel. Chiuse le centrali nucleari, persa la tecnologia. La storia del declino di un Paese è anche questa. I Romani lasciarono all’Italia la più formidabile rete di strade e acquedotti della storia, e ai barbari bastarono pochi decenni di abbandono per trasformarla in un cumulo di macerie.
La straziante tragedia di Genova è figlia di una paralisi del progresso. Il ponte aveva i suoi guai da molto tempo. Se è crollato, è evidente che la manutenzione non è stata all’altezza. La Giustizia dovrà provare a capire perché e per colpa di chi: l’industria dei processi per disastro colposo non si ferma mai. Ma già dalla fine degli anni ‘90, aveva avvertito un esperto, il costo della manutenzione di quel ponte era diventato così elevato da essere quasi pari al costo della sostituzione. Esiste del resto ormai da decenni un progetto di bretella che può eliminare l’anomalia di un’autostrada che passa sulla testa di una città: la Gronda di Ponente. Eppure, insieme ad altri nomi esotici come la Tav o il Terzo Valico, è finita nell’elenco delle battaglie epiche e infinite di cui sentiamo la sera in tv, con i buoni e i puri che vogliono bloccarle e i cattivi e i corrotti che vogliono farle. Siccome i buoni nelle storie vincono sempre, alla fine le opere si fermano. Ma la vita no.
Meno tunnel ferroviari vuol dire più Tir sulle autostrade, compresi quelli che prendono fuoco a Bologna o cadono sulla testa della gente a Genova. E se blocchi la Gronda devi tenerti il Ponte Morandi: infatti nel 2013, sul sito dei Cinquestelle, un comunicato del Comitato del No definiva «una favoletta» il rischio che il viadotto crollasse. Per evitare di sostituirlo, ci si doveva tenere il vecchio. Come in un paradosso filosofico, la tartaruga diventa più veloce di Achille.
La paralisi è destinata ad aggravarsi. Al governo ci sono insieme i più grandi avversari delle opere pubbliche, i Cinquestelle, e i più accaniti sostenitori, i leghisti. I primi fermerebbero tutto per essere coerenti con quando erano all’opposizione, e cavalcavano tutti i Comitati del No d’Italia. La loro cultura, costruita sugli show di Beppe Grillo, dà per finita la corsa dell’umanità verso il progresso, e assegna alla nostra generazione il solo compito della manutenzione, dai viadotti ai vaccini. I leghisti, invece, farebbero qualsiasi opera pubblica per coerenza con quando erano al governo, locale e nazionale, con il centrodestra. La loro cultura, basata sul fare padano, è produttivista al punto di disprezzare ogni vincolo burocratico o ambientale. E infatti Toninelli ha messo la Gronda, finalmente arrivata alla fine del suo lungo iter amministrativo e ormai pronta per la gara d’appalto nel 2019, nel congelatore delle opere «da valutare». Mentre il suo vice al ministero delle Infrastrutture, Edoardo Rixi, leghista, si batte per farla fin da quando era l’assessore allo sviluppo di Toti alla Regione Liguria.
Tra le macerie e i morti di questa città sfortunata, Genova, che più di altre sembra pagare il prezzo della transizione dalla grande civiltà industriale che fu, si intravede insomma quel «cigno nero», l’evento imprevedibile ma ineludibile, che è stato evocato come vera prova del nove della strana maggioranza che ci governa. Solo che stavolta Bruxelles, i mercati e Soros non c’entrano niente. È tutto made in Italy, ahinoi.