Negli anni 40 del secolo scorso si è introdotto nelle norme ordinamentali concernenti lo stato giuridico della magistratura e le sue, come si diceva allora, guarentigie, il termine “prestigio”.
Da un punto di vista strettamente lessicale a questa parola corrisponde, nelle diverse accezioni, “la posizione di rilievo conferita dalla reputazione o dalla fama” o ” suggestione, illusione, incantesimo” e, correlativamente,” l’illusione ottenuta dal prestigiatore”.
Alla magistratura evidentemente dovrebbe attagliarsi la prima.
Nel giro di poco più di qualche anno progetti di riforma in itinere o in via di delineazione appaiono inserirsi in un tangibile contesto di delegittimazione della funzione dai livelli finora mai visti, non comparabili con il clima burrascoso che ha caratterizzato nel passato il rapporto tra giustizia e politica.
Cosa sta accadendo, dunque?
Evidenti discrasie del “sistema giustizia” nel suo complesso impongono da tempo l’esigenza di interventi di riforma, ma, alla luce di quelli precedentemente attuati e delle linee di fondo di quelli in corso di approvazione, così come di quelli in via di formulazione, può già dubitarsi che essi raggiungano i necessari livelli di organicità che consentano un autentico recupero di dignità e di credibilità della funzione giurisdizionale.
Non vi è spazio in questa sede per analisi di dettaglio e perciò ci si limita ad alcune osservazioni.
Aumenti di pena, prolungamenti di tempi di prescrizione, imposizione di nuovi stringenti termini di definizione, discipline opinabili delle intercettazioni, ulteriori progetti di riordino delle circoscrizioni, ipotesi di soppressione di interi uffici, concezioni sostanzialmente manageriali delle dirigenze, risentono, oltre che dell’inefficacia del servizio e della crisi economica e strutturale immanente, anche di una logica di sospetto e di sfiducia nei confronti degli operatori che altera la percezione delle reali cause del perdurante degrado del sistema.
Ne è stata manifestazione eclatante, pur nella sua apparente irrilevanza, la riduzione del periodo di ferie, così come dell’età pensionabile, rivelatasi deleterie sotto vari profili, ma soprattutto per la forma ed il contesto motivazionale dell’innovazione legislativa in quanto diretta di per sé ad un improbabile recupero di efficienza.
La magistratura si è resa protagonista negli ultimi decenni di interventi importanti e decisivi per l’evoluzione della giurisdizione in ambiti meritori, quali quello dell’ambiente, del lavoro, del sociale, del tributario, oltre che nell’individuazione e nel controllo di pericolose aree di criminalità, ma anche di iniziative giudiziarie e mediatiche che sono state percepite come indebite assunzioni di un ultroneo ruolo politico nella vita del paese.
La contemporanea perdurante inefficienza globale dell’attività è stata pertanto vissuta dall’opinione pubblica come la rappresentazione di un’inadeguatezza ingiustificabile e perciò bisognosa di interventi correttivi in senso punitivo, con l’obiettivo del ridimensionamento della presenza della giurisdizione nel contesto generale dei rapporti tra le istituzioni e tra i poteri dello Stato.
Dunque, si profilano sullo sfondo del dibattito latamente politico sotteso ai lavori di commissioni di studio ministeriali, così come al concreto atteggiarsi delle attività degli organi di vigilanza (prima tra tutte quella del Consiglio Superiore della Magistratura) si profilano, dicevo, ipotesi di controlli più pregnanti e sofisticati e corposi ampliamenti delle fonti di conoscenza ai fini delle valutazioni di professionalità dei magistrati nella logica della individuazione di profili il più possibile aderenti alla concreta esplicazione della funzione e, correlativamente, rivisitazioni degli ambiti dell’intervento disciplinare.
Sono sempre stata convinta che se avessimo nel tempo difeso con altrettanto vigore, oltre che l’indipendenza e l’autonomia della magistratura, pur costituenti senza dubbio alcuno cardini essenziali dell’esplicazione della funzione giurisdizionale, anche il diritto di tutti ad un servizio efficiente ed efficace, e soprattutto credibile, avremmo impedito il formarsi di quel diffuso e crescente discredito che sembra autorizzare aprioristicamente i prospettati interventi normalizzatori.
Espressione pregnante di queste tendenze appare il risultato di una raccolta di firme per la proposizione di una riforma della Carta costituzionale che realizzi la c.d. separazione delle carriere tra magistrati giudicanti e requirenti, promossa e realizzata con ampio consenso dall’Unione delle Camere Penali.
Il tema ha visto un avvio dovuto, in prima battuta, ad un intervento normativo che, con il D.lgs. n. 160 del 2006 ispirato dall’allora Ministro della Giustizia Castelli, prevedeva vincoli per l’assegnazione ed il passaggio dei magistrati alle diverse funzioni, fino a prevederne l’obbligatorietà della scelta definitiva dopo cinque anni dalla nomina – norma poi abrogata con L. n. 11 del 2007 – ed è stato oggetto di cicliche discussioni, tutte connotate da posizioni contrapposte.
Un’idea di fondo, tuttavia, sembra animare anche qui il dibattito nella stessa logica punitiva: l’esigenza di attuare attraverso la proposta di modifica della Costituzione (che al contrario prevede una differenziazione dei magistrati solo sulla base delle funzioni e con uguali caratteri di indipendenza e di autonomia) una separazione strutturale tra quelle funzioni, da attuarsi con concorsi, organi di amministrazione e di vigilanza diversi, che impedisca la contiguità tra organo giudicante ed inquirente vista come condizionante del giudizio in favore delle tesi accusatorie ed effetto di una comune dilagante ed immanente cultura panpenalistica.
Corollario di questa premessa, anche la piena attuazione del principio di parità tra accusa e difesa sancito dall’art. 111 della Carta.
Il dibattito spazia infatti tra la necessità che i soggetti del processo, tutti, siano permeati della stessa cultura della giurisdizione (come tale immune da qualsiasi pre –giudizio), l’abbandono del principio di obbligatorietà dell’azione penale, la inevitabile sottoposizione del Pubblico Ministero a stringenti gerarchie interne e quindi al potere esecutivo conseguenti alla separazione: tra le opinioni contrarie. La progressiva specializzazione della funzione requirente ed il rafforzamento del valore della funzione giudicante e di quella della difesa, tra quelle favorevoli.
Non sembra opportuno in questa sede esaminare nel concreto dei dati statistici la non rispondenza delle denunce di appiattimento della funzione giudicante sulle logiche dell’accus; così come sottolineare la evidente improponibilità di una parità tra Pubblico Ministero e Difensore che coinvolga, oltre alla fase dibattimentale, come costituzionalmente prevista, anche quella delle indagini (date le lampanti diverse caratterizzazioni, l’una pubblica, l’altra privata, delle due figure).
Ma si può forse sinteticamente osservare che se proprio si vogliono perseguire intenti garantistici in senso assoluto, certo non si può razionalmente fondarne la realizzazione attraverso la creazione di “superpoliziotti”. Con tutto il rispetto, naturalmente, per la meritoria azione degli organi di Polizia Giudiziaria.
E’ allora necessaria una presa di coscienza collettiva dell’estrema delicatezza dell’attività giurisdizionale e della necessità che ne sia garantito il mantenimento dell’assetto costituzionale originario e, correlativamente, della assoluta imprescindibilità dell’apprestamento di strutture e mezzi idonei ad assicurare dignità e credibilità all’esercizio della funzione: decisivi, infatti, potrebbero essere un intervento a largo raggio nella direzione della delimitazione della domanda di giustizia e l’attuazione di formule organizzative efficienti per la definitiva razionalizzazione e conseguente efficacia del sistema, unici concreti argini per ogni ipotesi di stortura o deviazione.
E si potrebbe quindi compiutamente e fondatamente riparlare di prestigio della magistratura solo se essa stessa saprà impossessarsi del proprio futuro attraverso concrete assunzioni di responsabilità che si traducano in pur possibili interventi di autoriforma, che manifestino all’esterno una concreta volontà di superamento di antiche e sempre attuali inadeguatezze.
Non tutti sanno, solo per fare un esempio in proposito, che precise disposizioni, addirittura correlate con previsioni di sanzioni disciplinari per i casi di inadempimento, impongono ai capi degli uffici importanti funzioni di vigilanza che potrebbero e avrebbero potuto, in molti dei casi assurti all’onore delle cronache, assicurare quantomeno il rispetto di principi di probità.
Troppo spesso, tuttavia,al di là dei fatti eclatanti, si percepiscono andamenti, atteggiamenti, legami non propriamente virtuosi che, anche quando non siano direttamente verificabili, o disciplinarmente sanzionabili, si traducono in una generalizzata, amara sensazione di inadeguatezza complessiva e, in qualche momento, di estremo disagio da parte di tutti gli osservatori, compresi, ovviamente, gli stessi magistrati.
E’ indispensabile, dunque, anche una riflessione seriamente autocritica dall’interno della magistratura circa i caratteri stessi della propria identità istituzionale, per l’affermazione dei valori di un’etica del comportamento che impedisca queste derive distruttive.