Il sorprendente allentamento delle tensioni diplomatico-commerciali tra Usa e Ue dopo l’incontro Trump-Juncker del 25 luglio a Washington conferma, da un lato, l’estrema volubilità e spregiudicatezza del presidente americano. Al tempo stesso l’incontro di Washington segna un notevole punto a favore dell’abilità e tempestività diplomatica di Juncker nel promuovere un ruolo costruttivo e aperto della Ue verso la soluzione dei conflitti, anche se bisognerà vedere le reazioni del Consiglio e del Parlamento Ue per ragionare sui fatti oltre gli impegni verbali.
L’impegno bilaterale a «lavorare insieme per un obiettivo di zero dazi, zero barriere non tariffarie e zero sussidi ai prodotti industriali a eccezione del settore auto», ribadito nel comunicato congiunto a conclusione dell’incontro bilaterale, fa trasparire una quasi miracolosa riapertura verso quel negoziato transatlantico (TTIP) che pochi mesi fa sembrava definitivamente abbandonato per esplicite diffidenze da entrambe le parti.
Ora è presto per dirlo, ma i giochi sono forse già cambiati. E promettendo maggiori importazioni di soia e di gas dagli Usa all’Europa, Juncker fa ventilare a Trump l’Europa come partner promettente in antitesi alle minacciate rappresaglie della Cina, da cui i produttori americani di semi di soia dipendono per il 60% della propria produzione.
Dietro il nuovo corso anti-protezionista immaginato, forse provocatoriamente, dall’Amministrazione americana si scorge una crescente realistica apertura ai fondati timori della comunità degli affari circa i seri pericoli di una irresponsabile guerra commerciale globale da cui escono tutti perdenti.
Le drammatiche memorie della Depressione 1929-1933, riflessa nel crollo di tre quarti del commercio mondiale prima del New Deal rooseveltiano, non sono del tutto scomparse dalla mente dei politici d’oltre-oceano.
Ma soprattutto le tentazioni nazionalistiche, sovraniste e unilaterali dei governi che si affacciano sulla scena politica e nell’opinione pubblica dei due continenti trovano un potente antidoto nella presenza sempre più radicata sui mercati di grandi e medie imprese multinazionali che – contrariamente ad una primitiva teoria economica – lungi dall’accontentarsi di una logica “vengo a produrre nel tuo mercato per aggirare le barriere che il tuo governo pone alle importazioni dal resto del mondo” (strategia “tariff jumping”), hanno assoluto bisogno di combinare investimenti diretti all’estero e scambi commerciali a livello regionale e globale.
Siamo in un mondo in cui i prodotti finiti, perfino i prodotti tradizionali della moda e della casa ma soprattutto quelli a crescente complessità tecnologica (dall’impiantistica meccanica ai computer, dall’elettronica professionale ai telefonini, dai televisori alle apparecchiature medicali, dagli autoveicoli ai prodotti farmaceutici) sono sempre più la risultante di processi che attraversano i confini dei Paesi tramite le famose “catene globali del valore”. Le prime sentinelle che devono segnalare i pericoli delle tentazioni protezionistiche sono proprio le imprese multinazionali a cui fanno capo, secondo le stime dell’Unctad e della Wto, due terzi del commercio mondiale, di cui circa la metà sono scambi commerciali tra società affiliate o comunque collegate allo stesso gruppo societario.
Non solo: penalizzare le importazioni in nome del sovranismo («America First») rischia di danneggiare in modo autolesionista le proprie migliori imprese.
Si stima (Laura Tyson, Project Syndicate, 18 giugno 2018) che l’86% delle importazioni totali Usa di computer, 63% delle importazioni di attrezzature elettroniche, 59% delle importazioni di meccanica non elettrica incorporano quote importanti di valore aggiunto generato nelle multinazionali che operano fuori dagli Usa.
Le aperture di Juncker alle ripetute minacce di Trump vanno nella giusta direzione, nonostante la dubbia credibilità delle audaci proposte di Trump. C’è molto da stare a vedere