Mosca così come in Occidente, la morte di Gorbaciov è stata l’occasione per riesumare un mito caro sia ai nostalgici veteromarxisti, sia ai putiniani: quello sulle responsabilità occidentali nella disastrosa transizione della Russia dal comunismo al capitalismo. In questo come in altri campi, abbiamo visto in azione il riflesso pavloviano per cui «è sempre colpa nostra».
Nel caso specifico è la convinzione secondo cui le privatizzazioni russe durante la presidenza di Boris Eltsin avrebbero avuto la loro vera regia a New York (finanza di Wall Street) e a Washington (Banca mondiale, Fondo monetario internazionale). In buona sostanza, questa è una favola. Il ruolo della finanza occidentale fu marginale, quel grande saccheggio che furono le privatizzazioni russe fu perpetrato da un’élite russa ai danni del popolo russo. Lo ha dimostrato uno dei massimi esperti si storia sovietica, il docente di Princeton Stephen Kotkin, autore di una magistrale biografia di Stalin ed anche del saggio «A un passo dall’Apocalisse» sulla transizione da Gorbaciov a Eltsin-Putin (ripubblicato di recente nella collana geopolitica del Corriere).
Kotkin ricorda che negli anni Novanta gli investimenti stranieri in Russia ammontarono a qualche miliardo di dollari l’anno, meno che nella piccola Ungheria. In compenso durante quel decennio le fughe di capitali dalla Russia raggiunsero i 150 miliardi di dollari: quasi il quadruplo dei prestiti concessi dal Fondo monetario internazionale.
È così che nacquero le grandi fortune degli oligarchi, una parte delle quali venivano messe al sicuro in banche svizzere o inglesi, o a Montecarlo, Dubai e Hong Kong. Secondo una vecchia battuta, la Russia è il Paese più ricco al mondo, «perché nonostante tutti abbiano rubato allo Stato per quasi sessant’anni, c’è ancora qualcosa da rubare». Da questi furti gli stranieri furono quasi sempre esclusi. Un esempio: nel 1991 la Fiat aveva offerto due miliardi di dollari per comprare la fabbrica russa di automobili AvtoVaz, che fu invece venduta (o meglio svenduta) a investitori locali per 45 milioni di dollari. È con queste svendite, rapine, favoritismi, che si creò una nuova classe di capitalisti russi, molto spesso ex funzionari dello Stato o del partito comunista.
Dal passaggio del millennio in poi, a presidiare questa operazione di «accumulazione primitiva» – per usare un gergo marxiano – è intervenuto Putin, prima espressione delle caste di oligarchi, poi maestro nel gioco di ricattarli, asservirli, manovrarli.
Kotkin sottolinea quanta continuità esiste tra le due fasi storiche, e quanto comunismo (o leninismo, o stalinismo) ha impregnato Putin, la sua cerchia di potere, la classe dirigente in senso lato. L’arco storico cruciale ha inizio quando il sistema sovietico mostra i primi segni di crisi nella competizione con l’Occidente; si conclude con Putin saldamente insediato al potere, ancorché al debutto delle sue operazioni di aggressione esterna.
La ricostruzione aiuta a sfatare altri miti che hanno attecchito in Italia. Tra questi c’è l’idea che l’attacco all’Ucraina nel 2014 e poi nel 2022 sia la reazione di Putin ad una serie di umiliazioni inflitte dall’Occidente (America in testa), che dopo il crollo dell’Urss avrebbe tenuto la Russia ai margini della comunità internazionale. Chi sostiene questa tesi omette di solito due eventi significativi avvenuti alla fine degli anni Novanta: l’inclusione della Russia nel G7 che con essa divenne un G8; l’offerta a Mosca di un partenariato con la Nato che per qualche anno fu accettata. Perché queste forme di associazione della Russia con l’Occidente non bastarono a placarne la sete di rivincita?
Una risposta la si trova perfino in un manuale scolastico di storia russa che cita Kotkin, «influenzato dal Cremlino ed esplicito nelle sue intenzioni di restaurare il senso di patriottismo». Quel testo scolastico insegna che l’ingresso nel club delle nazioni democratiche «implica la cessione di parte della propria sovranità nazionale agli Usa». Ognuno di noi è libero di formarsi la propria opinione su questa affermazione: se la Germania o la Francia o l’Italia cedano sovranità agli Stati Uniti per il solo fatto di partecipare al G7, o se invece questi forum internazionali siano un luogo di condivisione di decisioni attraverso la ricerca del consenso, un formato geopolitico che rappresenta il superamento delle coercizioni imperiali.
Il punto però è un altro. Se per Putin qualsiasi associazione alla nostra comunità è un ingresso in forma subalterna che implica cessioni di sovranità, allora l’unico scenario a cui punta la sua Russia è il ritorno allo status quo ante: lo stallo fra superpotenze dichiaratamente ostili, l’equilibrio del terrore che segnò la prima fase della guerra fredda (1946-89) e rischia di segnarne pure la seconda fase aperta nel 2022.
Questo è confermato dal fatto che, secondo Kotkin, «gran parte della classe dirigente russa, come del resto la sua controparte americana, credeva di essere investita di una speciale missione, anche se un’applicazione esagerata del principio aveva condotto la Russia zarista e la stessa Urss a un rapido oblìo». Dunque, Russia e America hanno avuto in comune l’idea di essere nazioni «eccezionali». Ma per gli Stati Uniti questa visione messianica del proprio ruolo – all’insegna del «Manifest Destiny» – è stata sottoposta a critiche interne feroci, ha spaccato il Paese e ha distrutto presidenze, anche quando si è incarnata nell’illusione o nell’impostura del voler esportare democrazia e diritti umani.
In Russia invece Putin ha riesumato il destino eccezionale riservato alla Russia restituendogli l’aureola della sacralità religiosa, dello scontro di civiltà con un Occidente decadente e imbelle, peccaminoso e licenzioso. Più l’America diventava dubbiosa e scettica sul proprio ruolo universale, più la Russia caricava il suo di un’ancestrale ideologia reazionaria. Un esempio di questa divaricazione nella traiettoria tra le due superpotenze si è avuto proprio in questo 2022, l’anno della seconda aggressione militare russa all’Ucraina. Mentre a Mosca in occasione del conflitto si rinsaldava più che mai l’alleanza fra il potere politico e quello religioso (Putin e il patriarca ortodosso), in America la sentenza della Corte suprema che cancellava il diritto costituzionale all’aborto ha offerto lo spettacolo di una spaccatura fra i politici cattolici (Joe Biden, Nancy Pelosi) e la chiesa (papa Francesco applaudiva alla sentenza del tribunale costituzionale).
Federico Rampini
[ CORRIERE DELLA SERA ]