Un canovaccio tanto drammatico quanto già visto. Che ha segnato e continua a segnare la storia degli Stati Uniti. La violenza spropositata delle forze dell’ordine in una delle tante, difficili metropoli statunitensi; un uomo inerme che ne resta vittima; il cleavage razziale (la vittima è nera, il poliziotto che con il ginocchio sul collo ne provoca il soffocamento è bianco); l’ondata successiva di proteste, disordini e violenze, che da Minneapolis, la città dove è avvenuto l’omicidio, si estende ad altre parti d’America.
Tanto si è discusso e tanto si è cercato di fare negli Usa in questi ultimi anni, soprattutto dopo l’ultima grande ondata di riots urbani a Saint Louis, Missouri, nell’estate del 2014, provocati anche in quel caso dall’uccisione di un afroamericano da parte delle forze di polizia. Le matrici e le cause di questa violenza son plurime e ben studiate. Vi è il persistere, e anzi il recente acutizzarsi, di divisioni e tensioni razziali (la possibilità che un afroamericano ne sia vittima è tra le due e le tre volte superiore a quella di un “bianco”).
Incide la proliferazione di armi da fuoco, che complica immensamente l’operato delle forze dell’ordine e alimenta spesso una spirale difficile da controllare. Agisce una inclinazione securitaria, che assegna alla polizia compiti che non le pertengono – secondo alcune stime una percentuale rilevante delle vittime delle violenze poliziesche degli ultimi anni erano persone con seri problemi psichici – dotandola al contempo di una strumentazione militare del tutto inappropriata per i contesti di microcriminalità urbana nei quali si trova ad agire.
Ma vi è anche un fattore nuovo, quello sì senza precedenti nella storia degli Usa moderni. Un presidente che getta deliberatamente benzina sul fuoco. Che alimenta lo scontro e la contrapposizione. Che quella frattura razziale mai ricomposta, che segna ab origine la storia del paese, cerca oggi di ampliare e cavalcare, consapevole che a essa deve tanto delle sue fortune politiche e che da essa – dall’acuire ed esasperare il risentimento razziale della sua base elettorale bianca – dipende in ultimo la sua possibilità di essere confermato a un secondo mandato.
Diversi dati ci segnalavano un miglioramento in atto rispetto ad alcuni dei tanti indicatori dello stato di salute della società statunitense anche rispetto a questo cleavage razziale. Diminuiti erano gli omidici per arma da fuoco rispetto ai picchi di fine anni Settanta e metà anni Novanta. Decresciuta in modo significativo è la popolazione carceraria, con la riduzione di quasi un terzo degli incarcerati neri. Migliore è diventata la situazione di gran parte delle città statunitensi, rispetto ai picchi di violenza e microcriminalità dell’ultimo ventennio del Novecento.
Certo, gli Usa rimangono – nella parte di mondo più ricco e prospero – il paese dove si uccide o si è uccisi con maggiore facilità. Dove la vendita e il possesso di armi da fuoco sono più diffusi e meno controllati. Dove il lascito delle politiche di tolleranza zero adottate a partire dagli anni Ottanta continua a farsi sentire. Dove la violenza urbana rimane ben al di sopra di qualsiasi soglia fisiologica si voglia provare a definire: dove le città più pericolose – Saint Louis, Detroit, Baltimora, Memphis – hanno un tasso di omicidi in rapporto alla popolazione che è di dieci volte o più superiore a quello delle loro controparti europee. Ma un progresso sembrava in atto.
La crisi economica del 2008, l’onda lunga dei suoi effetti, la frattura apertasi con l’elezione alla presidenza del primo afro-americano e la reazione orribile di un pezzo di America bianca, guidata appunto da Donald Trump, all’idea che un uomo di nome Barack Hussein Obama potesse essere Presidente: tutto ciò ha concorso a riaccendere la frattura razziale e, con essa, le dinamiche e le tensioni che oggi vediamo in azione a Minneapolis. Di nuovo, soprattutto in ambito statale e municipale sono state promosse varie riforme a partire dall’obbligo per i poliziotti di dotarsi di telecamere che documentino il loro comportamento in servizio. Ma dopo l’elezione di Trump, a livello federale il messaggio è stato ambiguo od opposto, in linea con la propensione dei repubblicani ad adottare una prospettiva rigidamente securitaria sulla questione della criminalità urbana.
Con un provvedimento dall’alta valenza simbolica Trump ha, ad esempio, deciso di riattivare i programmi di trasferimento alle forze di polizia locali dell’equipaggiamento militare dismesso dalle forze armate, che Obama aveva in parte bloccato nel 2015 in seguito ai fatti di Ferguson. Con il suo linguaggio rozzo e binario, Trump ha spesso riproposto il lessico e le proposte di quell’era di tolleranza zero che sembrava volgere al termine. Un’escalation verbale, quella del Presidente, che sembra avere raggiunto un picco con il suo ennesimo tweet, nel quale ha preso di mira la presunta debolezza del sindaco di Minneapolis Jacob Frey e minacciato di assumere direttamente il controllo della situazione e inviare la Guardia Nazionale affinché sia fatto “un lavoro appropriato” (“to get the job done right”).
Abbiamo visto e ascoltato davvero di tutto, in questi tre anni e mezzo di Donald Trump alla Casa Bianca. E però questa sua ultima uscita da Presidente-vigilante che promette di dispiegare la violenza contro i manifestanti e cerca di esasperare lo scontro politico – in un momento che richiederebbe invece piena collaborazione e unità d’intenti tra potere federale e autorità municipale – rappresenta davvero uno dei momenti più bassi di questa Presidenza. Ci mostra, caso mai non ce ne fossimo ancora accorti, il livello di abbruttimento del discorso politico e lo spaventevole degrado dell’istituzione presidenziale.
Nell’agire di Trump, lo sappiamo, convergono una patente inadeguatezza istituzionale e un’inclinazione violenta e autoritaria che abbiamo visto tante volte all’opera. Vi è però anche un evidente istinto politico ed elettorale, senza il quale non ci spiegheremmo il suo successo del 2016 e la sua inscalfibile popolarità presso una larga maggioranza dell’elettorato repubblicano. Trump riflette ed esaspera l’acuta polarizzazione politica e culturale esistente nel paese. Le matrici di questa polarizzazione sono plurime. La “linea del colore”, la frattura razziale, è una delle più importanti. Ampiamente sovrarappresentati tra l’elettorato trumpiano sono specifici segmenti demografici: quelli dei maschi bianchi over 50 e dei bianchi con livelli d’istruzione bassi o medio-bassi. Secondo i sondaggi, nella definizione dell’appartenenza partitica, tra gli under-50 vi sarebbe ormai uno scarto di circa venti punti a favore dei democratici.
Quest’America bianca, anziana e meno istruita è quella che più rimpiange un passato presuntamente idilliaco, nel quale consolidate gerarche razziali erano incontestate e la violenza era esplicitamente, e spesso istituzionalmente, dispiegata per imporle e preservarle. Ed è ovviamente quella che più teme le trasformazioni demografiche e culturali in atto.
Trump soffia sul fuoco, senza curarsi delle conseguenze, per inadeguatezza istituzionale (e, verrebbe voglia di dire, etica) sì, ma anche perché quel fuoco lo può aiutare elettoralmente (occultando, al contempo, la sua malagestione dell’emergenza sanitaria). Perché il diffondersi di violenze e disordini potrebbe alimentare la richiesta irresistibile, e in una certa misura comprensibile, di legge e ordine. Mettendo così in grande difficoltà un fronte democratico che si relaziona invece con una base elettorale, in teoria maggioritaria, ma assai più composita e volatile. Più difficile da mobilitare, in altre parole. Quello trumpiano è però un fuoco che rischia di bruciare, metaforicamente e non, un paese oggi straordinariamente lacerato, diviso e incattivito.
Mario Del Pero
[ ISPI Istituto per gli Studi di Politica Internazionale ]