
Le dimissioni del segretario Nicola Zingaretti sono la conferma dello stato critico in cui versa il Partito democratico, al quale l’ultimo colpo è stato inferto da Mario Draghi. Il suo governo, infatti, per il semplice fatto di esserci, non per altro, è valso a mettere definitivamente fuori gioco la forma partito tradizionale di cui il Pd era rimasto fino ad oggi l’ultimo rappresentante nella sua qualità di unico erede a tutti gli effetti della Prima Repubblica.
Dal 1945 al 1994 quella forma partito — con le sue assemblee di sezione, le sue federazioni provinciali e regionali, il suo comitato centrale, segreteria e direzione — costituì un modello organizzativo fatto più o meno proprio da tutte le formazioni politiche. Anche perché esso ricalcava lo schema degli organi di governo e delle relative assemblee elettive che la democrazia italiana si era data con la Costituzione. Un medesimo partito obbediente al centro dal più piccolo comune della penisola al Paese nel suo insieme.
È accaduto però che a un certo punto, sotto l’urto imprevedibile delle cose — nello scompiglio ideale e pratico prodottosi con le inchieste di Mani Pulite e nella inquietante sorpresa per la comparsa in quella circostanza di un attore del tutto inedito come la Lega — è accaduto, dicevo, che il sistema dei partiti della Prima Repubblica nel tentativo di trovare il modo di salvarsi in realtà abbia finito per suicidarsi. In prima fila — mosso dalla falsa sicurezza che in quel modo avrebbe potuto sopravvivere al crollo — il Partito ex comunista nelle sue varie successive ibridazioni e denominazioni.
Il suicidio avvenne in due tappe, grazie a due decisioni convergenti. La prima fu il nuovo sistema di elezione diretta dei sindaci con il potere attribuito loro di scegliersi una giunta di propria fiducia (1993); la seconda l’elezione egualmente a suffragio diretto dei presidenti della giunta regionale (1999) — quest’ultimo provvedimento enormemente rafforzato nella sua portata dal successivo nuovo Titolo V della Costituzione (2001) con il relativo, inconsulto allargamento dei poteri delle Regioni. Cioè del potere dei presidenti delle loro giunte, gratificati all’istante e per sempre del titolo abusivo di «governatori» che nessuno sarebbe più riuscito a togliergli.
Da quel momento i vecchi partiti cominciarono a non esistere, a non poter esistere più, essendo erosa una condizione fondamentale della loro esistenza, vale a dire il loro carattere nazionale e per così dire ideologico-impersonale. Da allora in poi riuscirono a mantenersi in campo e a resistere solo i partiti personali. Quelli con un uomo o una donna soli al comando e basta — senza sezioni, senza troppi congressi e al limite senza neppure più gli iscritti sostituiti dagli elettori — i partiti che infatti cominciarono subito a proliferare sulla scia della Lega di Bossi seguita a ruota da Forza Italia.
Grazie poi ai poteri conferitigli dalle due novità istituzionali di cui sopra i «governatori» delle Regioni e in misura minore anche i sindaci diventarono i decisori assoluti delle politiche in loco, e specialmente i «governatori» diventarono anche i padroni delle ingenti e crescenti risorse collegate ai nuovi compiti attribuiti alle Regioni. Questo fatto ne fece rapidamente i veri padroni del partito nei rispettivi territori. Sempre più anche la formazione delle liste elettorali locali, la scelta dei candidati al Parlamento, dipese dalla loro volontà o come minimo dal loro beneplacito. Da tempo in Puglia, in Emilia o in Campania, quello che pensa il Nazareno conta assai meno di quello che vogliono Emiliano, Bonaccini o De Luca. Nelle periferie italiane, insomma, così come è venuto progressivamente meno il potere dello Stato centrale e del governo allo stesso modo è venuto progressivamente meno anche il potere dell’apparato centrale dei partiti d’un tempo. E dunque del Pd, il loro unico sopravvissuto.
Al quale un colpo durissimo è stato inferto anche dal nuovo modello di potere monocratico stabilito per Comuni e Regioni. Il Partito democratico infatti — quello degli elettori, quello vero, non quello finto che a un certo punto Matteo Renzi si è illuso di guidare — accecato dalla persistente idolatria costituzionale ereditata dal suo lontano passato «comunista», non si è mai stancato di opporsi a qualunque rafforzamento, anche minimo, del governo centrale del Paese e dei suoi poteri. In tal modo esso è divenuto il rappresentante simbolico di una gestione della cosa pubblica non solo inefficace e screditatissima ma pure contraddetta dalle regole e dalle prassi in vigore nelle periferie gestite dai suoi uomini, molto spesso proprio i più intraprendenti e dinamici. Anche sul piano simbolico si è aperto cioè un fossato sempre più ampio tra l’esercizio del potere da parte di un partito dei territori — con il suo governo diretto, iperaccentrato, iperpersonalizzato, a suo modo anche fattivo e efficace non foss’altro per l’immediatezza esecutiva delle decisioni (a prescindere dai contenuti) — e un modello di partito di Roma nonché un esercizio del potere da parte sua del tutto opposti. Il partito di Roma per un verso dilaniato sempre da correnti e sottocorrenti e dalle loro estenuanti diatribe, per l’altro verso legato a una prassi di governo che la nostra Costituzione e la legge elettorale condannano alla «condivisione» e alla «trattativa» perpetue, al compromesso, alla lentezza; capace di impegnarsi e di dar voce a battaglie e a strategie solo di schieramento (contro la «destra», contro il «sovranismo», ecc., ecc.) ma mai su cose da fare qui e ora.
Il Pd rischia così di svanire, vittima dei suoi troppi errori e del coraggio che fin qui gli è sempre mancato. Il coraggio cioè di convincersi che c’è un solo modo per tornare ad essere un vero partito nazionale e per tornare ad avere un ruolo egemone a sinistra. E cioè promuovere le modifiche della Costituzione (e in relazione a queste una nuova legge elettorale) che servano a costruire un governo centrale forte e in grado di durare più di qualche mese. Enrico Letta è stato molti anni a Parigi e chissà che nelle sue giornate di studio non abbia meditato sulla parabola di François Mitterand, il quale, alla testa di un Partito socialista ridotto ai minimi termini, lo convinse ad accettare senza riserve il meccanismo della Repubblica presidenziale gollista e nello spazio di qualche anno ne divenne il presidente. Di normalità, di ipotesi sul «campo largo da costruire» e altri pannicelli caldi simili, il Partito democratico muore. Per tornare alla vita gli serve l’audacia della rottura. E gli serve ora.
Ernesto Galli della Loggia
[ CORRIERE DELLA SERA ]
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