Sosteneva Henry Kissinger, il segretario di Stato più influente che gli Stati Uniti abbiano mai avuto, che non sono i presidenti Usa a cambiare il mondo, ma è il mondo a cambiare i presidenti Usa. Kissinger, però, non poteva prevedere che un giorno alla Casa Bianca sarebbe approdato il più atipico e irregolare tra gli inquilini possibili. Un signore non paragonabile o assimilabile a nessuno dei suoi predecessori. Infatti, Donald Trump, a differenza di quelli che lo hanno preceduto nella dimora più ambita del pianeta, è impermeabile alle evoluzioni del contesto, oltre che refrattario a quel tasso di flessibilità che deve caratterizzare l’attività politica.
Basti pensare ai (suoi) proclami protezionistici. Un tempo sarebbero stati pronunciati solo per fare incetta di voti. Chiuse le urne, sarebbe subentrato, alla Casa Bianca, un sano, scontato pragmatismo. Oggi no. Trump non ha modificato di una virgola il suo programma elettorale. E i risultati si vedono, specie nei rapporti con gli alleati.
«America prima di tutto», è il suo motto. Il che significa che Zio Sam non ha intenzione di occuparsi anche degli altri; che i soci dell’alleanza atlantica dovranno iniziare a badare a se stessi e ai propri problemi; che la Confederazione a stelle e strisce non spalancherà le porte ai prodotti stranieri; che la trasfusione demografica dai Paesi poveri dovrà cessare. Eccetera.
Chiunque, al posto di Trump, avrebbe messo in conto una reazione uguale e contraria dopo il ribaltone della tradizionale filosofia americana. Ma Trump è Trump, ossia il meno politico tra i leader Usa. Per lui, solo agli Stati Uniti vanno concesse quelle libertà di manovra che sono inammissibili per gli altri Stati che non hanno il rango di superpotenza.
Ma il mondo non è mai statico. E se l’America si rinchiude in se stessa, qualcun altro cercherà di rimpiazzarla nei luoghi lasciati scoperti. La Cina non sta facendo altro che subentrare agli Usa, sia commercialmente sia politicamente, nelle aree non più protette dal gigante americano. Il che, è ovvio, indispettisce il Magnate di Washington e lo rende sospettoso e reattivo nei confronti di tutte le mosse degli uomini di Pechino, oltre che amici storici della Casa Bianca corteggiati dal colosso asiatico.
Il paradosso, però, è che il megafono del libero scambio oggi venga utilizzato più dalla Cina che dagli Sates. Solo pochi anni addietro questo capovolgimento di posizioni sugli scambi economici internazionali sarebbe apparso più inverosimile dell’approdo di Fabrizio Corona in un eremo monastico. Adesso, invece, la Cina è vicina non soltanto per la competitività dei suoi prodotti, ma anche per la seduzione esercitata dalle sue idee di sviluppo. Idee, però, con un doppio risvolto.
niamo al tema della via della seta. I cinesi vogliono ripristinare il canale che per secoli ha consentito loro di esportare manufatti e delizie in Europa. Nulla di grave, per carità. Anzi. La globalizzazione, di cui il drago cinese è stato il principale beneficiario, serve proprio a questo: ad allargare le opportunità di scelta da parte dei consumatori, e a decuplicare le occasioni di investimento da parte dei danarosi. Ma c’è un ma. Molti ciclopi industriali cinesi prendono ordini dallo Stato, cioè dal Partito. Il che non è rassicurante per le capitali europee, specie se nell’orbita gialla dovessero planare imprese continentali ad alto contenuto tecnologico e soprattutto in grado di incidere sui programmi di sicurezza di una nazione o di una grande impresa.
L’Europa non è affatto contenta di correre questo rischio. Infatti, ha messo le mani avanti, invitando l’Italia a non farsi ammaliare dal fascino dell’Oriente. Ma il governo di Roma non intende rinunciare ai succosi contatti commerciali con Pechino, né è intenzionato a innalzare un muro per ostruire la via della seta. Chiudere il traffico alla Cina, infatti, significa penalizzare il giro degli scambi, significa precludere vantaggiose opportunità per le imprese italiane.
In particolare il Sud e la Puglia non possono stare a guardare, come le stelle di Cronin (1896-1981). I loro porti devono cogliere tutte le opportunità che la carta cinese offre.
Si obietta: la Cina resta un Paese totalitario, non possiamo sdraiarci di fronte a ogni sua richiesta, pena il pericolo di farci sottomettere e colonizzare senza emettere un lamento. Giusto. La Cina non è un modello di libertà e democrazia. Ma fino a quando potrà durare il monopolio del potere da parte del partito-stato? Prima o poi gli interscambi commerciali indurranno anche i responsabili cinesi ad aprirsi alle procedure democratiche. È solo questione di tempo. Nell’attesa non si può rifiutare un rapporto più stretto sulla via che già stregò Marco Polo (del resto, grazie alla loro micidiale attitudine al lavoro e al risparmio i cinesi si stanno imponendo mezza Italia, non solo nelle squadre di calcio).
Trump farà la faccia feroce di fronte a questa prospettiva che vede l’Italia tra i protagonisti? Può essere. Ma la politica (e l’economia), specie sul piano internazionale, non stanno mai ferme. Se l’America si ritira nei propri possedimenti, ci sarà sempre qualcun altro pronto a soffiarle una sistemazione più redditizia nell’agorà globale.
Tutto sta, adesso, a Roma, in Puglia e sulla via adriatica, a non restare immobili davanti alla finestra mentre il mondo, come cantava, e canta tuttora, Jimmy Fontana, gira come sempre nello spazio senza fine.